Dear Horatio

umberto pastore and me

La foto è di domenica 22 maggio, 36-37 anni dopo l’ultima volta che avevo visto Umberto.
Sì, dear Horatio,  there are more things in heaven and earth than are dreamt of in your philosophy. Prendi Umberto e me, siamo cresciuti assieme, nel senso che abbiamo giocato a pallone assieme, che abbiamo suonato assieme, nel senso che lui suonava e io strimpellavo appresso a lui perché volevo partecipare e magari partecipando partecipando acchiappare qualche ragazza, abbiamo studiato e vissuto assieme per un anno, il primo dell’università a Salerno, ci siamo innamorati assieme e abbiamo cantato e abbiamo sognato e abbiamo fino a che non ha vinto il concorso nelle ferrovie, macchinista, a Verona, a cavallo di una locomotiva, come un eroe gucciniano però senza rabbia, mite, sorridente, affettuoso, buono.
Sì, direi che è incredibile la facilità con la quale una persona come me con i suoi oltre 100 mila chilometri riesce a perdere di vista un amico così per oltre 35 anni. Chissà, forse assieme alla banalità del male c’è anche una banalità dell’amicizia perduta, all’inizio ti dici prima o dopo lo acchiappo, ne sei certo, non è possibile diversamente, e intanto il tempo passa, e poi magari passi per la stazione di Bologna o anche quella di verona e guardi qui e là nei treni pensando chissà, magari sta qui, magari lo abbraccio, magari e intanto il tempo passa, e poi magari decidi di fare una rimpatriata e di rivedere tutti i tuoi amici di secondigliano sparsi per il Nord e poi al’ultimo non ci riesci e intanto il tempo passa, fino a quando un sabato, 21 maggio 2011, non rispondi al telefono e una voce di là ti dice “ciao Vincenzo, non so se ti ricordi di me, sono Umberto Pastore”. Sì, non so se ti ricordi di me, ve l’avevo detto che ui è fatto così, dolce, mite, adesso non fatemelo ripetere. Certo che mi ricordo, e poi l’emozione dell’incontro il giorno dopo, e la foto, e la promessa che alla prima occasione ci rivediamo.
Sì, lo prometto, questa volta non me lo lascio scappare, non ho più venti anni, non posso permettermelo. Comunque state tranquilli, che vi tengo informati.

Mille chilometri al giorno

Adesso non ditemi che “metto ‘o pepe ‘nculo a zoccola”, come diceva Pascalino ‘o Riccio, o se preferite ma spero proprio di no “cospargo il sale sulla ferita”, ma ieri sera è stato l’ultimo pensiero che ho fatto prima del solitario incontro con Morfeo, “Venti chilometri al giorno, Polvere e sole, Andata e ritorno, Venti chilometri al giorno, Per poi sentirti dire che, Non mi vuoi più vedere“, beato lui, venti chilometri al giorno.

Adesso non ditemi che non sapete che lui è Nicola Arigliano che mi incazzo davvero, a meno che non siate nati dopo il 1990 che mi incazzo soltanto ma senza il davvero. Perché beato lui invece me lo potete dire, direi che me lo dovete chiedere perché altrimenti il post finisce qui. Ecco la risposta:
giovedì 26 maggio: trento, festival dell’economia, amartya sen, nobel 1998, lezione su “i confini della libertà economica”, tema del festival;
venerdì 27 maggio: napoli
sabato 28 maggio: napoli, festival dell’economia di trento, il sommerso e l’economia da svelare;
lunedì 30 maggio: roma, fondazione giuseppe di vittorio;
martedì 31 maggio: roma, fondazione giuseppe di vittorio;
mercoledì 1 giugno: varese, presentazione bella napoli;
giovedì 2 giugno: varese, presentazione bella napoli;
venerdì 3 giugno: porto venere, la spezia, presentazione uno, doje, tre e quattro;
sabato 4 giugno: sarzana, la spezia, e finalmente napoli.

Adesso non ditemi che non sapete fare il conto perché non è difficile, circa 6 mila km in 9 giorni, e soprattutto non ditemi che sono tutte cose che mi fa piacere fare perché non mi fa solo piacere, sono  felice di farle, considero un vero privilegio tutto questo, sono grato dal più profondo del cuore a Marilena, Santina, Giancarlo, Michele e tutta l’Ahref Foundation, sono emozionato per sen e per le amiche e gli amici che potrò finalmente rivedere, sono contento delle chiacchiere che faremo la sera con Andrea e Laura con annesso pancione, sono contento anche per le persone che compreranno e leggeranno Bella Napoli, insomma sono nato con la camicia come vi ho detto già altre volte, eppure ciò non toglie nulla al fatto che mi toccherà fare tanti chilometri e come sapete io e i chilometri stiamo scompagni da parecchio tempo anche se alle signore di piazza Enakapata non piace che io lo dica.

Adesso non ditemi che state pensando questo adesso ricomincia che non ci penso proprio, sul punto quello che dovevamo dire lo abbiamo detto, qui in piazza Enakapata e su Uno, doje, tre e quattro, il mio indimenticabile librodiariodivitaediviaggio con Viviana Graniero, Daniele Riva e Carmela Talamo, è soltanto che a me “mi” piace troppo e quindi la citazione galeotta la ricordo qui:
Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo, senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Tao del cielo. Più si va lontano, meno si conosce. Per questo il saggio senza viaggiare conosce, senza vedere nomina, senza agire compie.
Ecco, l’ho fatto, e ho anche sospirato, sì, un ahhhhh lungo lungo lungo, poi però mi sono ricordato della telefonata di Giancarlo e poi del messaggio che mi ha mandato Michele, com’è che mi ha scritto?, sì, una cosa tipo “qui ho messo sotto le cuoche per i canederli in attesa del tuo arrivo”.

Adesso non ditemi “Vicié, senza uscire dalla porta niente canederli”, perché senza uscire dalla porte niente Sen, niente Marilena, niente Giancarlo, niente di niente, cioè tutto. No no, non mandatemi dove state pensando di mandarmi, sto solo scherzando, davvero, di più: ‘o giuro ‘ncoppa all’ossa ‘e zì palluottolo.

Sillabario perugino

Artigiano
Sì, direi che viene quasi normale che con il passare degli anni uno l’artigiano che ha in sé cerchi di tenerselo sempre più stretto, almeno per me funziona così. A volte ho pensato che è perché non so e soprattutto non so fare quasi nulla, altre volte perché sono segno zodiacale Vergine e nei confini di ciò che per me vale amo essere preciso, non darmi scampo, ma questo è, prima mi ci sono abituato, adesso lo coltivo il mio piccolo grande “me” artigiano. Sì, direi che mi piace un sacco mettere qualcosa di me in quello che faccio, mi piace farlo con gioia, mi piace essere contento quando l’ho fatto bene. Dite che in questa Napoli declinante sono destinato a fare la fine di Don Chisciotte? Io dico di no, se “no” è troppo perentorio dico forse, ma aggiungo che a me la fine che fa paura veramente è quella che fa chi si arrende. Scusate ma non mi lego a questa schiera, morrò come Guccini pecora nera.

Assenti
Come a Catania anche a Perugia ho da registrare un assento e una assenta, questa volta però tutti e due giustificati. Trattasi di Irene Preti e di Giovanni Mometto, le due persone con le quali più abbiamo avuto a che fare nella realizzazione della nostra inchiesta sulla scuola abbandonata a Napoli.
Sì, a Perugia mi sono mancati per molte ragioni, la più importante è perché ha funzionato tutto molto bene, ma sì, diciamolo, crepi l’avarizia, è stato un successo e a questo successo loro hanno dato un bel contribuito.
Dite che tutta la <ahref Foundation è stata importante, che dietro le quinte c’è il lavoro di tante altre persone? E io mica lo metto in dubbio, di più, ne sono convinto, soltanto io qui non sto presentando un report sull’attività svolta e non sto neanche facendo la lista della salute modello Tommasino in Natale in Casa Cupiello, sto raccontando di persone, di emozioni e di relazioni, insomma di facce, di occhi, di voci, insomma facciamo così, per questa volta quelle di Irene e Giovanni funzionano come l’aleph, valgono per tutte.

Enrico Pedemonte
Una vita da inviato. Nel suo ultimo libro, Morte e resurrezione dei giornali (Garzanti) racconta il futuro prossimo venturo dell’editoria. Attualmente impegnato nel varo di Il nuovo Paese Sera, la voce di Roma. Leggete qui come se lo immaginano lui ed Enrico Fontana: “Un mensile d’inchiesta, libero e popolare. E un quotidiano on line, continuamente aggiornato e aperto al contributo di associazioni, comitati, cittadini. Da un lato l’approfondimento, la riflessione, lo sguardo attento ai cambiamenti in corso, ai protagonisti della vita sociale, economica e culturale, ai bisogni delle persone e alle risposte delle istituzioni, al ruolo della politica e al funzionamento della pubblica amministrazione. Dall’altro, quartiere per quartiere, tutte le notizie del giorno, gli eventi, gli appuntamenti da non perdere, le informazioni utili per muoversi, divertirsi, fare sport, i blog da seguire, le opinioni da commentare, le iniziative da condividere”.
La sera di venerdì abbiamo potuto chiacchierare un po’ e la mattina del sabato gli ho regalato la copia di Bella Napoli che avevo con me. Spero che lo legga e che almeno un po’ gli piaccia. Punto.

Fausta Slanzi
Giornalista, lavora per la Provincia Autonoma di Trento ed è stata nostra complice per ragioni istituzionali e nostra compagna di chiacchiera, di cena e di viaggio per ragioni di piacere. Il viaggio è stato breve, come a Perugia andare dal centro alla stazione, però lungo abbastanza per raccontarsi delle cose, per conoscersi solo un po’ ma quel poco avverti che ti piace. Sì, quando Cinzia, Alessio and me l’abbiamo salutata ci ha fatto piacere pensare che l’avremmo rivista presto a Napoli.

Freddo
Ebbene sì, ha fatto tanto freddo, direi particolarmente freddo per metà aprile, anche per Perugia. Io ero arrivato attrezzato, se sei segno zodiacale vergine un’occhiata al meteo e alle temperature minime e max gliela dai, magari senza fartene accorgere ma gliela dai. Ma vi assicuro che nella Band c’è chi lo ha sofferto tanto il freddo, nonostante il cuore impavido.

Luca De Biase
Se state pensando che è perché è il presidente che se ne sta qua solo soletto mentre Erla, Giancarlo, Giorgio e Michele stanno assieme da un’altra parte cliccate subito su reset perché siete fuori strada. La verità è che con Luca siamo amici da più o meno 20 anni e sono più o meno 20 anni che sono contento di volergli bene come si vuole bene agli amici veri, quelli che ti mancano uguale se li vedi tre volte in un mese o li vedi una volta sola in tre anni, quelli che va bene così, quelli che nel riassunto delle puntate precedenti c’è sempre un po’ di posto per la parola complicità. Ciò detto, rimane da aggiungere che in questi anni assieme a tante altre abbiamo fatto anche qualche bella cosa assieme. Per esempio nel ’94 abbiamo scritto “Sud e Federalismo”, che per me resta un bel libro, sì, bello, non me ne importa se “ogni scarrafone è bello ‘a mamma soja”, il nostro era, è, bello per il tema, nell’anno di grazia 1994 il federalismo visto da Sud non era cosa di tutti i giorni, e anche per come l’abbiamo raccontato, “modestamente a parte” come avrebbe detto mio padre. E un paio di anni dopo abbiamo messo su, assieme a un altro nostro amico, Rosario Strazzullo, una rivista che la porterò per sempre nel cuore, Austro e Aquilone, dai nomi dei due venti, del Sud e del Nord, che aveva un sottotitolo che era tutto un programma: (tele)comunicazioni tra Napoli e Milano.
Certo che è vero che ha resistito soltanto due anni, 6 numeri, però ci sono passati Pierluigi Bersani, Alberto Bregani, Federico Butera, Carlo Callieri, Antonio Cantaro, Franco Cassano, Anna Cerruti, Sergio Cofferati, Furio Colombo, Bo Dahlbom, Riccardo Dalisi, Biagio De Giovanni, Derrick de Kerckhove, Vincenzo De Luca, Domenico De Masi, Hubert Fexter, Vittorio Foa, Guido Fontanelli, Luigi Frey, Giuseppe Genna, Giuseppe Giulietti, Alberto Leiss, Sebastiano Maffettone, Michele Mezza, Corrado Ocone, Diego Piacentini, Francesco Pinto, Alex Ponti, Andrea Ranieri, Stephan von Stenglin, Umberto Torelli, Bruno Trentin, Salvatore Veca, Alessandro Vezzosi, Federico Ziberna e non sono neanche tutti non so se mi spiego.
E poi con Luca ci siamo acchiappati tra una fatica e l’altra – a proposito, se non avete ancora letto il suo ultimo libro, Cambiare pagina, do it! fatelo! – in tante altre cose che se mi metto a raccontarle tutte questo sillabario perugino diventa un libro e di questi tempi vi assicuro che per quanto mi riguarda non è proprio aria.

Luisa Pronzato
Lei l’abbiamo conosciuta il sabato, a pranzo, dove abbiamo capito che tra le mille cose che fa scrive per La 27esima Ora
. A me aveva detto che si sedeva lì perché voleva parlare con me, invece voleva parlare con Cinzia. Quando ho cercato di scalare di un posto per la serie “provateci voi a mangiare una bistecca con patatine in santa pace con Luisa Pronzato da una parte, Cinzia Massa dall’altra e tu in mezzo” mi ha detto di non fare il maschilista. Quando ho cercato di fare lo scugnizzo dicendole “io non faccio il maschilista, sono maschilista” ha bofonchiato qualcosa tipo “essendo maschio, come poteva essere altrimenti” e ha continuato tranquilla a parlare con Cinzia.
Dite che per questo mi è piaciuta un sacco? Non lo so, l’ho saputo quando ho letto questo
: “Sono, con orgoglio, lo stereotipo della zitella (lascio ad altre i doveri della single). Pasionaria, non rinuncio agli entusiasmi. Fotografo per esercitare occhio e mente e continuare a raccontare. Con le immagini”.

Michele Kettmaier, Erla Mesiti, Giancarlo Sciascia and Giorgio Meletti
Questa voce l’avrei chiamata <ahref Foundation se non fosse che Giorgio non è che lo puoi mettere solo là, e io suoi anni passati al Corriere della Sera?, e quelli di adesso a Il Fatto Quotidiano?, e poi in fondo neanche Michele, Erla e Giancarlo li puoi mettere solo là, e allora diciamo che questa sarebbe la voce “belle cape, belle idee, bella gente”, che poi è l’idea che ci siamo fatti Alessio, Cinzia, Colomba and me di Fondazione Ahref.
Sì, a me Fondazione <Ahref come titolo e Belle cape, belle idee e bella gente come sottotitolo piace molto, definisce un modo di essere e di fare che purtroppo si fa una certa fatica a incontrare nel nostro bel Paese, il modo di essere e di fare di chi lavora con entusiasmo, di chi è attento al dettaglio, di chi insomma ha cura delle cose che pensa e che fa, del modo in cui le fa, delle persone con cui le fa.
Sì, ad Alessio, Cinzia and me tutto questo ci è piaciuto molto, perché noi in fondo eravamo arrivati da poco e invece ci siamo sentiti come se fossimo stati con loro da sempre. È come nella Napoli bella quando qualcuno prende il caffè e ne paga anche un altro, il “sospeso”, per l’avventore sconosciuto che presto o tardi passerà. Con un piccolo gesto si dà senso alla relazione con l’altro e noi a Fondazione Ahref abbiamo trovato senso, connessioni, amicizia, e non è poco, no che non è poco non è poco.

Panini
Panini non nel senso delle figurine, nel senso proprio dei panini, quelli che ha comprato Cinzia appena arrivata a Termini mentre lei e Alessio aspettavano me che arrivassi dalla Fondazione e l’Eurostar che arrivasse sul binario.
Noi eravamo 3, i panini che abbiamo mangiato sono stati 4 ma chi ne ha mangiati 2 non ve lo dico, vi dico invece che faccio sempre così, prima mi arrabbio fino a diventare esagitato quando Cinzia mi dice che per me ne prende 2 della serie “che devo fare con questi panini assurdi che vendono alla stazione prendine 1 che basta e avanza”, poi mangio il mio di panino e poi anche il suo che se lei ne non ne avesse comprati 4 a prescindere sarebbe rimasta senza. Dite che sono impossibile? Vero. Ma solo in parte. Per un altra parte è un gioco, sì, funziona proprio come nella vita.

Piedi
I piedi in questione sono quelli dell’intrepida Erla, sì, proprio lei, Erla Mesiti, che è arrivata in versione estiva nella Perugia dominata dal freddo e dal vento, comprese le scarpe aperte, se ricordo bene delle ballerine, e piedi rigorosamente nudi. Posso dire che ho ammirato non solo la resistenza dell’intrepida fanciulla ma anche il suo amor proprio quando si è rifiutata di indossare i calzini che il prode Giancarlo le aveva offerto per dare ricovero ai suoi piedini gelati? Proprio così, della serie “io quelle calze lì a righe orizzontali non le metto, piuttosto mi tengo il freddo”. Certo che ci vuole coraggio, io nella sua situazione mi sarei messa anche le calze di Pippi calzelunghe, le mutande di lana del nonno quelle no, vabbé diciamo soltanto se ce ne fosse stato davvero bisogno.

Team Moretti
La definizione non è mia, è di Alessio Strazzullo, che forse per dare una soluzione postuma alla mia risposta impacciata a una domanda di Luisa, “come vi chiamate?”, ha scritto a un certo punto sul suo blog
: “noi del Team Moretti un nome ancora non ce l’abbiamo, e al momento preferiamo non pensarci troppo su”.
Confesso che all’inizio quel “un nome ancora non ce l’abbiamo”, con il suo evidente, diciamo pure incombente, riferimento al momento in cui dovremo averlo, mi ha procurato una notevole angoscia, poi per genio e per caso sul display del mio iPod è apparso “Un’ora sola ti vorrei, Mario Musella e Gli Showmen” e il mio daimon made in Secondigliano mi ha suggerito immediatamente “La scuola abbandonata a Napoli, Vincenzo Moretti e i Citizen Reporter”.
Adesso che vi ho fatto capire come sono ridotto posso aggiungere che Cinzia Massa, Colomba Punzo e Alessio Strazzullo sono stati dei compagni di inchiesta semplicemente straordinari e mi fermo qui perché altrimenti la cosa diventa sdolcinata e non va bene, anche perché non si può riposare sugli allori, meglio cercare di migliorarsi sempre, vedere cosa e come si poteva fare meglio, su su, che ci sono ancora un sacco di cose da fare.

Timu
Timu è la piattaforma che Fondazione <Ahref sta approntando per permettere ai cittadini reporter di fare informazione di qualità. Nel frattempo che aspettate potete fare due cose: inserire il vostro indirizzo elettronico per essere contattati non appena la piattaforma sarà disponibile per il pubblico; vedere come procede La scuola abbandonata, la prima grande inchiesta promossa su Timu che affronta per l’appunto il tema della disperisone scolastica nel nostro paese.

Lettera su Bella Napoli

Ciao Vincenzo,
non so se ti ricordi di me perché è passato un po’ di tempo dalla piacevolissima discussione fatta insieme ai nostri ragazzi al bar di Piazza Vanvitelli.
Ti scrivo perché, reduce dalla lettura del tuo ultimo lavoro, volevo trasmetterti la mia gratitudine per le emozioni e le idee che ha catalizzato.
Le emozioni, per le magnifiche storie di persone che sento più che mai vicine e che so non essere delle eccezioni. Si sono inserite in un momento della mia vita in cui, tra mille dubbi e lacerazioni, sto chiedendo alla mia azienda di rimandarmi a Napoli dopo ventisette anni qui a Berlino. So per certo che tra le mille difficoltà che ciò potrà comportare ci sono almeno due buoni motivi per farlo, avvicinarmi ai miei due figli e ritrovare le dodici (cento, mille) persone di Bella Napoli.
Le idee. Qui la faccenda si complica. Sai quella sensazione che si prova quando senti di essere vicino a qualcosa, qualche concetto, ma non riesci ad esprimerlo in maniera chiara. Emergono frammenti da organizzare in un disegno.
Le singolarità che Napoli riesce ad esprimere sono enormi; alcune persone, nel fare quello che fanno, nel lavoro come nella vita, ci mettono quel qualcosa in più che gli viene dall’essere nate e vissute li. Un mix incredibile di fantasia, passione, capacità, spirito di sopravvivenza e amore. Ma tutto ciò nasce dal caos, dal disordine e produce effetti mediamente bassi lasciati nel contesto che li ha generati, talvolta eccellenti se inseriti in un contesto organizzato.
In altri paesi e culture prima si definisce l’obiettivo, poi se ne fa un progetto, si organizzano i processi e poi si chiamano le persone che meglio si attagliano ai rispettivi ruoli. Quindi tutti si sentono a proprio agio, danno il meglio e faticano meno. Ma chi nasce in questa organizzazione delle vita non ha nessuna necessità di sviluppare capacità in più. Questo concetto è un po’ la trasposizione sociologica dei quanto espresso ne “il caso e la necessità” di J. Monod per la biologia. E quindi? Non so di preciso … Ma se provassimo a fregare il meccanismo?
Una volta nel mio lavoro mi è capitato di “fregare il Sistema” per riuscire a realizzare un progetto che altrimenti mi sarebbe stato negato. Non mi sarebbe venuto dietro nessuno se fosse stato esplicito; ho dovuto agire nei meandri dell’organizzazione per creare una cosa in sordina e poi dare la visibilità una volta che la cosa ha avuto successo. Se non avessi fatto in quesot modo l’nvidia, la prevalenza dell’interesse personale rispetto a quello del team, chiusura mentale, ne avrebbero impedito la realizzazione così come successo mille altre volte in mille altre realtà.
La cosa fu paradossale ma estremamente educativa; forse si potrebbe cercare di fare lo stesso, ma a Napoli i Sistemi da fregare sono almeno due: il Sistema sociale e quello politico-malavitoso.
Per il primo bisognerebbe lasciare che le singolarità continuino a svilupparsi per effetto del processo naturale ed ambientale della città, per poi inserirle in un meccanismo virtuoso di interazione con altre culture, con un progetto di sviluppo organizzato ma non palese: una sorta di incubatore interculturale che si aggreghi intorno alle nostre singolarità (pensa gente che viene a Napoli da ogni parte del mondo per creare cose e fatti nuovi). Mi viene in mente quello che fa la natura con i sistemi, agendo in modo da massimizzare l’entropia. L’uomo con la sua opera agisce mettendo ordine, quindi abbassando l’entropia, ma è solo questione di tempo e la natura si impone creando disordine, quindi aumento di entropia. Se i nostri concittadini li trapiantiamo altrove, in un sistema organizzato, tempo una generazione e diventano come gli altri. Se li lasciamo “fermentare” nello stesso brodo culturale  che li ha generati e li mettiamo a contatto con altri magari si sviluppano bacini di eccellenza. Bisogna ragionarci ma non è impossibile.
Per il secondo non saprei come fare ma bisognerebbe evitare che politica e malavita si accorgano che Napoli ed i napoletani possono cambiare la realtà delle cose e creare sviluppo altrimenti è fatale che il tutto viene bloccato. D’altra parte sono consapevole che il potere economico è esattamente in quelle mani e quindi ogni cosa passa da li. Ma continua a venirmi in mente la mia esperienza di prima: io i soldi me li sono fatti dare dall’azienda ma non si sono accorti di cosa stavo facendo fino in fondo; dopo, a cosa fatta, sapessi in quanti sono stati pronti a prendersene merito.
I soldi, anche se non molti, sono certo che circolano e tra fondi della comunità e quelli di investitori privati potrebbero essere sufficienti a lanciare il “modello fantasma ad entropia massima”, per provarne l’efficacia o quanto meno la possibilità.
Mi scuso per le mie farneticazioni ma te le ho trasferite tal quali mi sono venute in mente leggendo il libro e ti ringrazio ancora molto per ciò che rappresenta questo tuo lavoro.
Un abbraccio.
Federico P.

La Bella Napoli di Irma Saccone

Gentile Professore,
sono quella signora dai capelli bianchi che lei incontrò alla libreria Feltrinelli di piazza dei martiri, con cui scambiò poche parole e a cui diede in omaggio il suo libro “Bella Napoli” chiedendo semplicemente che venisse letto. L’ho letto con attenzione e la prima espressione che mi è venuta alle labbra è stata: “Finalmente una boccata d’aria pura”. Sì, perchè leggere di Napoli, attraverso storie di lotte e conquiste personali di giovani napoletani, restituisce quel senso di orgoglio di appartenenza a questa nostra terra napoletana di cui si evidenziano spesso e soltanto- purtroppo spesso a ragione- i tanti aspetti negativi. E mi vado dicendo che questo libro dovrebbe circolare sopratutto fra i giovani per lo più delusi dalle poche o assenti aspettative di lavoro. Certamente ne trarrebbero motivo d’incoraggiamento, di ottimismo. Ed io mi adopererò, per quanto mi sarà possibile, di proporre la lettura del suo libro a giovani e ad adulti: a proposito mi è capitato di parlarne con la prof. M. S., che insegna anch’ella alla Università di Salerno. Siamo amiche e -i casi strani della vita- si metterà a contatto con lei, sempre a proposito del libro, che io le avevo mostrato in un incontro a casa mia.
Ora mi permetto di suggerirle quanto già suo figlio Luca benevolmente gli fa notare: raccontare, narrare in prima persona.La sua nota introduttiva “benvenuti a Bella Napoli” è stata, per me, una delle più belle pagine del  libro, comprese la prefazione e la postfazione, e per la forma e per il contenuto. Non mi dilungo oltre, sono solo un’accanita lettrice. Con tanti auguri.
Irma Saccone

La Bella Napoli di Concetta Tigano

Ho finito di leggere Bella Napoli già da un po’, volevo pensarci, molte belle cose sono già state dette e le condivido tutte, è un libro diverso da quelli che ho letto finora, questa raccolta di storie mi è piaciuta molto.
Le esperienze di lavoro raccontate con il cuore in mano, in prima persona, con amore, hanno, secondo me, un filo che le unisce, anzi due.
In ogni storia ci sono due costanti: l’intelligenza dei protagonisti ,unita al carattere, e una persona che riconosce potenzialità e che aiuta a volare alto.
A questo proposito, mi chiedo se oggi, con i test di ingresso universitari “selvaggi”, alcuni talenti sarebbero emersi.
Il famoso “diritto allo studio” mi sembra calpestato,  i ragazzi hanno tempi tutti strampalati, adesso più che mai, può capitare  di capire tardi qual è la propria strada, e di persone , anzi e di maestri, ce ne sono sempre meno, pochi fanno “squadra”, anzi molti si circondano di imbecilli per non sfigurare, con quel poco che hanno.
Un’altra cosa che è piaciuta è la finta locazione delle storie, è vero, sono tutte persone di Napoli e dintorni, ma  gente così, per fortuna,  è dappertutto, è la parte migliore del nostro paese, mal rappresentata purtroppo.
I protagonisti, che sembrano seduti lì a raccontarti, testimoniano che si può, che è possibile, che bisogna lottare e credere in quello che si fa, in ogni storia c’è passione, impegno, ma quello che mi ha colpito c’è gioia e mai disperazione.
Non c’entra granchè, ma voglio raccontarlo qui lo stesso,  sabato ero in macchina con mia madre, avevo messo un CD intitolato Bella Napoli, non è un caso, mia madre canticchia qualche strofa e poi mi dice “Un popolo capace di scrivere e cantare queste canzoni così belle, non se lo merita di essere sfruttato e derubato dalla camorra”.
Ho pensato “ Ci giurerei! A Vincenzo piacerebbe intervistarla!”

Bella Napoli, bei napoletani

Dichiaro due conflitti di interesse e una minaccia. E’ meglio dichiararlo subito, bisognerà pure distinguersi da omini e omuncoli che popolano il Belpaese.
Uno. Stefano Iucci, l’autore dell’articolo che potete leggere qualche riga più sotto, è mio amico.
Due. E’ anche il vice presidente della Ediesse, che come sapete è la casa editrice del mio cuore.
Una. l’articolo glielo ho praticamente estorto, lui mi aveva chiesto 8 mila battute per un articolo sul lavoro da pubblicare sul numero speciale di Rassegna in uscita per il Primo Maggio, io dopo aver cercato di dirgli di no (è un periodo che non capisco niente tanto sono le cose che sono in cantiere) ho ceduto in cambio di 2 mila battute su Bella Napoli. Adesso poi le conto, che non sono certo che siano proprio 2 mila, ma comunque le ha scritte, e secondo me sono belle.
Dichiarato quello che dovevo dichiarare posso dire che sono straordinariamente grato a Stefano che mi ha costretto a scrivere questo articolo che si intitola Elogio dell’uomo artigiano e mi piace anche un sacco (non dite che non sta a me dirlo perché non ho detto che è bello ma soltanto che a me piace)? Posso aggiungere che mi sarei pentito amaramente di non non aver accettato la sua proposta per manifesto ottundimento della ragione derivante da overstress? Che  considero davvero un onore il fatto di essere uno degli autori del numero speciale del Primo Maggio della rivista della mia cara Cgil? Io l’ho detto, se ci riuscite provate voi a cancellarlo. Non prima però di aver letto il commento di Stefano a Bella Napoli.
Buona lettura.

Bella Napoli, bei napoletani
di Stefano Iucci

Che Napoli sia bella credo che nessuno dotato di senno potrebbe negarlo.
Napoli è bella non solo per il Golfo, i vicoli e i musei. Napoli è bella per tanta gente comune – tanti giovani anche – che a fari spenti si prende la briga di condurre una vita onesta e umanamente produttiva in una città in cui farlo non è sempre così semplice e che, anzi, una certa retorica stantia ma mai completamente esaurita definisce bella proprio in quanto maledetta, impossibile, feroce eccetera eccetera.
Francesco, Emma, Angelo, Giovanna (cito i primi nomi che compaiono nell’indice) sono solo una parte di questo esercito di volonterosi che coltiva la dignità del proprio lavoro, l’umiltà strenue e mai sottomessa di svolgere con dignità il compito che il destino, le circostanze e il talento (generalmente tutti e tre ben mescolati) hanno assegnato loro.
E la raccontano, questa loro vita, a Vincenzo Moretti che nel suo Bella Napoli, Storie di lavoro, di passione e di rispetto (Ediesse 2011) fa un po’ come i rabdomanti: cerca, esplora e alla fine trova (perché i veri ricercatori trovano sempre…), proponendo una “retorica” (intesa nell’accezione classica) di segno opposto. Quella dell’artigiano, di chi fa le “cose perbene perché è così che si deve fare”, come scrive lo stesso autore.
Sembra poco ma è tutto. Non supereroi, dunque, ma artigiani: un’indicazione precisa per i giovani e la loro voglia di giocarsi a carte scoperte il proprio futuro.

La Bella Napoli di Mariagiovanna Ferrante

Io non sono una Napoletana. Nel senso che non sono nata a Napoli. Ma posso affermare con certezza di essere innamorata di questa città, dalla quale mi sento figlia adottiva da un po’di anni a questa parte, grazie alle esperienze-di studio, di lavoro e di svago-che mi hanno permesso e mi permettono di viverla in modo piuttosto intenso, nel bene e nel male. Ho studiato a Napoli, e da studentessa ho iniziato a respirare l’“aria della città”, trattenendomi spesso nella zona del Centro alla scoperta di stradine e piazze.
Il mio stato di insegnante precaria mi ha portato nei licei napoletani, mentre i vari corsi di improvvisazione teatrale e di tango mi hanno permesso di conoscere la Partenope notturna, con il suo frastuono, ma anche con i suoi silenzi, a volte inquietanti.
In questo senso, mi viene in mente un elenco alla maniera di “Vieni via con me”: in esso potrei inserire, tra i motivi per andar via, la camorra, la microcriminalità, la munnezza, il traffico, le auto in doppia fila, il lavoro nero, la disoccupazione.
E se mi limitassi alla pars destruens potrei restare prigioniera dei consolidati clichè che fanno di Napoli una città suicida, priva di voglia di riscatto e vittimista.
Ma poi ho la possibilità di elencare i motivi per restare. E oltre al mare, al sole e ‘o mandulino, ho la certezza che i motivi per restare sono tanti, come ho potuto constatare leggendo un bel libro, che è quello di Vincenzo Moretti. Ho comprato il volume più di un mese fa, in occasione della sua presentazione alla Feltrinelli di Piazza dei Martiri.
Ricordo che pioveva a dirotto e che non potevo aprire l’ombrello a causa del vento: sono arrivata in libreria fradicia di pioggia, ma giusto in tempo per assistere all’incontro con l’autore.
Una bella presentazione, priva di retorica e trasudante entusiasmo, grazie alla quale il libro è giunto tra le mie mani.
Un bel titolo, BellaNapoli: a dirla tutta, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata l’associazione con una pizza fumante, con doppia mozzarella di bufala, olio extravergine e basilico…
E in effetti, leggendo il libro, credo di aver vissuto questa avventura sinestetica, perché quello che mi è rimasto, dopo l’ultima pagina, è stato un buon sapore. Un sapore di sincera voglia di vivere e di amare questa città. Soprattutto, di lavorare, e di farlo senza imbrogliare, senza farsi raccomandare e senza prendersela col destino se le cose non vanno per il verso giusto: è quello che fanno dodici persone normalissime, e nel contempo eccezionali nella loro normalità. Che abbiano una laurea in tasca o no, non fa differenza: queste dodici persone raccontano, nella semplice complessità di un racconto di vita, cosa significhi svegliarsi la mattina e andare a insegnare in una scuola di periferia, o inseguire un contratto a termine, o essere costretti a reinventarsi dopo aver svolto per diversi anni sempre le stesse mansioni.
Ecco che mi viene in mente un’altra cosa: la canzone di Caparezza, Eroe. Il tono non è certo quello del cantante pugliese, però ogni volta che sono giunta al termine della lettura di una vita, mi è sembrato di sentire le parole “straordinario tutte le sere”. Forse è anche per questo che ho impiegato più tempo del solito per finire il libro, un po’ come mi è capitato per Uno, doje, tre e quattro: in questo testo, come nel precedente, non si può leggere una sola riga senza riflettere, senza provare un moto dell’anima. Per questo motivo, la mente si scopre piacevolmente stanca alla fine di una tranche de vie dal momento che ha vissuto empaticamente lo stesso percorso della voce narrante, provando le sue stesse emozioni, dalla frustrazione, alla riscoperta di sé e delle proprie capacità, alla soddisfazione di dire a se stessi e agli altri: “Ce l’ho fatta”…
Emma, Angelo, Francesco, Beppe … sono tutti straordinari questi personaggi, che non “sopravvivono al mestiere”, ma lo vivono. E lo amano, perché amano farlo in questa città.
Vincenzo Moretti è riuscito molto bene a trasmettere tutto questo, senza vuote apologie e senza ricorrere a luoghi comuni. Che ami Napoli, non si percepisce semplicemente, si sente. E poiché la ama, incondizionatamente, riesce a trasmettere questa onda emotiva anche a chi legge questa sua “antologia” di esistenze. Non è un caso, poi, che il libro si chiuda con la storia di Beppe, artigiano, musicista, pensatore, che scrive: “Se la guardi in maniera distratta, la foglia oro è solo una metodologia per rivestire un oggetto in oro. Ma se la guardi con gli occhi giusti…è il risultato finale…di un lavoro minuzioso portato avanti fino all’ultimo come deve essere portato avanti, cioè con pazienza, con meticolosità, con maestria e soprattutto, ma sì, adesso dico la parola giusta, con amore”.
Penso che in queste parole ci sia tutto il senso del libro. Vincenzo vuole insegnare, in questo libro, che “forseforse” vale la pena di restare e di darsi da fare. E auguro a questo libro di capitare nelle mani di tante, tantissime persone, e magari anche in quelle dei candidati alle prossime amministrative. Perché Napoli possa essere conosciuta non solo e non più come terra di camorra e di munnezza, ma come città di Persone e di rispetto.

Aeroporto Bella Napoli

di Giuseppe Giordano

Gli aeroporti sembrano tutti uguali, sia quando li attraversi di corsa, sia quando ti soffermi a guardare le vetrine esagerate di luci che non appartengono alla città e ricche di souvenir che poco o nulla hanno a che vedere con la memoria del viaggio.
Sì che il mio viaggio non era ancora cominciato e mi sono ritrovato a Capodichino in uno strano percorso, costretto ad attraversare un incrocio di negozi a scaffale aperto, mentre cercavo di raggiungere il varco d’imbarco.
Quasi a venirti incontro e a cercare di trattenerti, prima di lasciarti andare, partire.
Ma il negozio che non ricordavo, che ha attirato la mia attenzione più per la voglia che avevo di entrarci da un po’, che per la sorpresa di trovarlo dietro l’ultima “chicane”, è quello della ben nota libreria, la F., che anche quando è un negozio, chissà perché, è sempre al femminile.
Ci volevo andare da un po’, perché avevo proprio voglia di cercarlo lì e di trovarlo lì, sapevo anche in quale scaffale, quel libro.
Supero la barriera magnetica e cerco con lo sguardo lo scaffale indiziato… vabbè, dovrei svoltare subito a destra e andare dritto a prenderlo quel libro. Ma come si fa? Si sa che non è possibile. Bisogna entrare, fare un giro largo… poi, quasi prima di uscire di nuovo davanti alla barriera, come colpito da improvvisa illuminazione, è a sinistra che devi voltarti per raggiungere lo scaffale e quel libro.
Ma i libri su Napoli devono per forza avere la copertina rossa? Mah!
Ne trovo due copie, ne prendo una, mai a caso, anche se apparentemente identiche. Ci avete mai fatto caso che i lettori sembrano possedere un metodo infallibile per individuare la propria copia sugli scaffali delle librerie?
Mi dirigo alla cassa.
Ed è qui che accade quello che volevo annotare. Il vero souvenir della mia città che ancora non ho lasciato.
Poggio il libro sul banco (dotato di smagnetizzatore) e qui, la cassiera con visibile soddisfazione, afferra il libro, se lo guarda, poi mi guarda tutta contenta:
– Questo libro l’ha scritto un mio amico.
– Veramente, l’ha scritto un MIO amico, le rispondo-
NO, quello il figlio lavora con noi… è un nostro collega, lo conosciamo bene.
– SI, quello il padre è un mio collega… lo conosco pure io!
Quasi una gara a chi conoscesse di più l’Autore… in un attimo, in due battute, tra lo stupore degli italiani “stranieri” in fila.
E poi l’ultima parola che le concedo. Ad alta voce, rivolta all’altra commessa:
Terèeeee, è il libro di Vincenzo…..
Me ne vado. Stranamente soddisfatto.
Così pensavo, succede solo nella mia città. Il viaggio comincia.

La Bella Napoli di Antonio Ventre

Si chiama Antonio Ventre, vive a Bologna, stamattina ho trovato la sua lettera nella cassettà delle lettere all’università. Stasera gli ho telefonato, l’ho ringraziato, gli ho chiesto se potevo pubblicarla. Mi ha dato il permesso, mi ha ribadito del suo piacere a leggere cose belle di Napoli, mi ha parlato di una Associazione Reginella fondata a Bologna dai napoletani. E’ la seconda volta che lodico in due giorni, ma davvero si vive anche di soddisfazioni. Grazie di cuore signor Antonio.

Sillabario Catanese (Cronaca di due giorni annunciati)

Preludio
Venerdì 8 aprile 2011. Aeroporto di Catania Fontanarossa, 6.57 p.m. Ho appena fatto il check-in, imbarco previsto ore 8.50 p.m., partenza prevista ore 9.15 p.m., arrivo previsto a Napoli Capodichino alle ore 10.15 p.m..
Gli occhiali sono di nuovo al loro posto, cioè sul naso (sì, la mia vita non sarebbe la stessa senza il Principe Antonio de Curtis), poi vi racconto come e dove li ho ritrovati.
Tentenno un pò, poi decido di cominciare. Sì, ho tanta voglia di raccontare i miei due giorni e un pò a Catania, anche se le cose sono tante, troppe per finire tutte in una sera. Tra una cosa e l’altra finirò domenica mattina, ma questo adesso non posso saperlo ancora. Stamattina ho pensato di scrivere un alfabeto in C, ma non la C di Catania, la C di Concetta, che non è la stessa C, anche se Catania è molto bella. Scrivo la premessa e la voce Catania, carico la foto, pubblico su Facebook, avvertendo dei lavori in corso. In fondo l’alfabeto è bello anche perché si può leggere una voce per volta.
Sabato 9 aprile 2011. Scrivo un altro po’ di voci, ho un mare di cose da fare ma questa cosa qui la sento, mi piace, mi sforzo di trovare il tempo per pensarci. La sera pubblico la nuova versione.
Domenica 10 aprile 2011. Daniele Riva ha scritto un commento affettuoso e incoraggiante, gli amici di sempre si fanno vivi qua e là, Concetta aggiunge un commento che fa più bello e più ricco il mio racconto. Decido di evitare questa cosa “political correct” ma che appesantisce l’esistenza di amica/o, il genere umano è uno solo, ci stanno maschi e femmine, e per questa volta va bene così. Decido anche che il post non si chiama più Alfabeto in C ma Sillabario Catanese e che Concetta non sta più in testa, come avevo pensato fino ad ora, ma in coda. No, non è perché è diventata meno importante, all’incontrario. Diciamo che funziona come a teatro, il protagonista principale arriva alla fine. Buona lettura.

Al Tubo
Nessun errore, si chiama così la trattoria pizzeria dove siamo stati la prima sera e poi anche la seconda. Non che si mangiasse in maniera indimenticabile, dati i prezzi ultra popolari sarebbe stato un miracolo, però almeno ho evitato la pizza. Sì, perché Concetta era partita sparata lei e la pizza, ma su questo punto sono stato irremovibile, il napoletano che mangia la pizza a Aci Castello non lo faccio – le ho detto -, tu naturalmente mangi quello che ti pare, io insalata e un piatto di pasta. È finita pasta con le vongole lei, insalata e pasta al nero di seppia io, indimenticabile no ma buona si. Quello che è stato invece indimenticabile, sì, insomma, quello che mi ha fatto chiederle di tornare la sera dopo anche se ero letteralmente a pezzi per la stanchezza, è stato il tavolino che affacciava sul mare, il Castello arrampicato su uno scoglio in alto, i faraglioni di pietra lavica che nonostante la sera senza luna erano un incanto, le chiacchiere senza tempo con Concetta ma di questo vi dico in fondo perché altrimenti in fondo che ci arrivate a fare.

Assenti
Papà avrebbe detto che ci sono stati una assenta e un assento, perché per lui tutto ciò che era femminile avrebbe dovuto finire con la “a”, tutto quello che era maschile con la “o”, ma questo in parte ve l’ho raccontato già. Diciamo allora che “l’assenta” era giustificata, il lavoro è lavoro sempre, anche quando ti fa dire “mannaggia proprio quel giorno doveva capitare”, invece per quanto riguarda “l’assento” avrei qualche dubbio in più, anzi lo avrei avuto quando ero confuciano perché adesso che studio per diventare taoista certe domande provo a non farmele più. Quello che voglio dire è che mi sono mancati tanto, ma non mancati perché mi sia mancato qualcosa, mancati perché si sarebbe aggiunto qualcosa, ma naturalmente non mancherà occasione.

Catania
La città è decisamente bella, forse ci ero già stato e forse no, non me lo ricordo, ma in fondo cosa importa, la sua bellezza è a prescindere da me e da tutti quelli che l’hanno visitata e la visiteranno. Ciò detto, sia Concetta che Rosanna ci hanno anche provato a parlarmi di ponti, piazze, lava, palazzi e tutto il resto, ma io ho resistito bene, nella mia vita ci sono già troppi anfiteatri, scavi, lave, bifore, trifore, mosaici, archi, ponti, palazzi etcevesa etcevesa etcevesa. A me piace la città in quanto città, capire come vive, come funziona, come è organizzata; mi piace guardare le persone, cosa fanno, come si vestono, come si muovono, come pensano. Risultato finale? Due giorni e un pò non bastano neanche per un risultato parziale. Diciamo che mi sono piaciuti i giovani, tanti, le università, il senso di una città viva, in movimento. Non mi sono piaciuti il traffico, l’inquinamento acustico, le troppe macchine per una città che in fondo, almeno se consideriamo il centro centro, è ‘nu muorzo. Lo so che non lo volete sentire, ma io ve lo dico lo stesso che basterebbe eliminare l’automobile e la televisione e questo nostro mondo diventerebbe di colpo più vivibile, da molti punti di vista. Ah, dimenticavo, mi sono piaciute da impazzire le facciate scure dei palazzi, sì, quelle fatte con la polvere di pietra lavica.

Etna
Giuro che quando ho visto questo vulcano così grande, così montagna, così pieno di neve, nonostante un sole caldo che sembrava estate, ho pensato “non è giusto che il Vesuvio sia più famoso”. Concetta mi ha spiegato che le ultime bocche di fuoco che si sono aperte lo hanno reso un pò più montagna e un pò meno vulcano, ma per me non è una questione di forme, è questione di come ti sovrasta, di come ti si presenta, di come ti dice guarda che io sono io.

Feltrinelli Libri e Musica
Alla voce Feltrinelli avrei un elenco lungo lungo lungo di persone, napoletane e catanesi, da ringraziare, ma non perché sono stati gentili e disponibili, perché gli amici sono amici e anche quelli che non erano ancora amici con il mestiere che fanno la gentilezza e la disponibilità ce l’hanno tra gli accessori di base. Il mio grazie, di cuore, è innanzitutto per il fatto di essermi sentito come a casa e un po’ anche per il fatto che mi hanno trattato come uno scrittore vero, si, uno di quelli che a volte sono bravi, altre volte no, ma comunque vendono talmente tante copie dei loro libri da poterci vivere, beati loro, senza dover fare altro. Non volendo fare un elenco che poi rischi sempre di dimenticare qualcuno e ti dispiaci tu e si dispiacciono loro, ringrazio per tutti Sonia Patania, la responsabile degli eventi. È stato davvero un piacere. Alla prossima.

Granita
Non è che non ne avessi mangiate di granite buone, a Sorrento, ad Amalfi, a Palermo, a Trapani o a Messina. Ma a Santa Maria non fanno la granita, fanno la crema di granita, la madre di tutte le granite, l’archetipo della granita, il tao della granita, e poi la fanno alla mandorla, all’ananas, al limone, al pistacchio no che quelli freschi non ci sono ancora, insomma una granita da pazzi, roba da 110 e lode, anzi no, la lode no perché fanno anche la granita di cioccolata e anche se è vero che i ragazzi la mangiavano estasiati, la granita di cioccolata per me è un non sense, un ossimoro, una cosa senza “capa” né coda, più o meno come il governo italiano per intenderci. No, mi dispiace, 110, ma senza lode.

Interventi e Domande
Sì, ci sono stati anche interventi e domande, e poi anche sorrisi e dediche e persino richieste di amicizia su Facebook, tutte cose che mi piacciono un sacco e per le quali sono grato a tutti i presenti, uno a uno, nessuno escluso. Non potendo fare diversamente, altrimenti finiamo come con la lettera di Tommasino in Natale in Casa Cupiello, ne ricordo anche qui uno per tutti, l’intervento del prof. amico di Concetta – sì, vi dovete rassegnare, Concetta c’entra sempre, persino quando non la nomino-, che ha detto che la discussione gli era piaciuta e soprattutto che gli piaceva l’idea che si moltiplicassero i libri di questo tipo, che si creasse una vera e propria letteratura, ve lo assicuro, proprio così ha detto, sul lavoro e sulle persone che cercano di farlo bene, che stanno a Catania, a Napoli e in ogni parte d’Italia. Nei prossimi giorni lo contatto, è proprio la cosa che vorrei fare io, magari potrebbe darmi una mano.

Lavoro
Il lavoro come i racconti di lavoro che compongono Bella Napoli ma anche come lavoro che ho dovuto fare nei mie giorni catanesi sia dal vivo che via telefono, skype, posta elettronica. Sì, ormai la mia vita funziona così, il lavoro in qualche modo c’è sempre e devo dire che è molto faticoso, ma mi piace assaje.

Libro
Non è stata una sorpresa in assoluto, è stata una sorpresa perché non ti ci abitui mai, la verità è che ogni volta che qualcuno parla del tuo libro scopri cose nuove, ti dici “mannaggia ma perché non ci ho pensato io, perché non l’ho scritto come lo sta dicendo lui”. A Nino Amante e Andrea Micciché va la mia sincera gratitudine per aver presentato Bella Napoli con leggerezza, complicità, ricchezza.

Occhiali
Li avevo persi e poi li ho ritrovati. Erano occhiali da vista, niente di che, roba da cinquanta euro al massimo, soldi che non ti fa piacere spenderli così ma comunque non è che ti cambiano la vita. Quello che mi scocciava era riandare dall’ottico, portargli le lenti rotte, sì, quelle di riserva che apposta non le butto, andare a ritirare i nuovi occhiali due giorni dopo e così via discorrendo.
Lì ho cercati nell’albergo dove ho dormito la prima notte, niente, alla Feltrinelli, neppure, alla trattoria di Santa Maria della Scala neanche a parlarne però in compenso abbiamo mangiato della pasta con le vongole che poteva andare davanti a un re, nell’automobile di Concetta avevamo già guardato un paio di volte, niente, eppure mentre stavo per risalire in macchina per andare all’aeroporto ci ho riguardato, ma non più con gli occhi, con la mente sgombra, serena, insomma con il cuore, e li ho visti là dove non si potevano vedere, a fianco alla staffa del sediolino davanti, nella parte interna, il fodero leggermente ma giusto un briciolo più chiaro del ferro. Li ho presi e ho pensato adesso voglio vedere cosa dicono Cinzia, Viviana, Carmela, Deborah e tutte quante le altre che mi hanno massacrato per la mia teoria dell’albero. Quegli occhiali in quel posto lì non si potevano vedere, eppure io li ho visti, quasi come un piccolo principe. Un’altra volta imparano a non prendermi sul serio.

Portiere
Il portiere è quello dell’albergo dove ho dormito la prima notte, l’ho visto lavorare 20 ore di seguito, gli ho chiesto perché, mi ha detto “turno lungo così domani non vengo e mi posso dedicare alla mia attività di promotore di turismo culturale in Sicilia, ho preso la laurea, vorrei migliorare”. Abbiamo chiacchierato ancora, mi ha chiesto del libro e poi se fossi scrittore, gli ho risposto che scrittore è una parola grossa, lui mi ha detto “vero, volevo sapere se è con i libri che ti guadagni da vivere”, gli ho risposto di no, mi ha detto che sarebbe passato alla presentazione, l’ha fatto, assieme alla fidanzata e a un amico. Quando torno a Catania conto di intervistarlo, ma non perché è venuto alla presentazione, anche se una persona che dice una cosa senza essere obbligato a dirla e la fa senza essere obbligata a farla è una persona che mi piace, ma per la storia delle venti ore di lavoro di fila perché il giorno dopo deve fare altro per migliorare. Per me fino a prova contraria un posto a Bella Catania non glielo leva nessuno.

Radio Zammù
Concettina mi ha spiegato che Zammù deriva dalla parola araba Zammut, Anice, e che a Catania la usano per indicare la Sambuca. Ora sarà che a papà la sambuca gli piaceva tanto, a volte troppo, ma purtroppo adesso la cosa non mi dà più fastidio e poi nessuno è perfetto, sarà che nelle giornate fredde fredde fredde pure a me piace prendere il caffè corretto con un goccia ma proprio una goccia di sambuca, a me questo fatto che la radio dell’università di Catania si chiamasse così già mi piaceva un sacco, poi quando ho visto il bellissimo convento dei benedettini che ospita la facoltà di lingue, credo, ho conosciuto la redazione, abbiamo fatto questi 5 minuti di intervista a tutta birra, mi è piaciuto tutto ancora di più. Sì, alla radio do il massimo dei voti, anche se sono tre giorni che gli ho chiesto il file mp3 con la registrazione e neanche mi hanno risposto. L’ho appena detto, nessuno è perfetto.

Rosanna
Io allora avevo 18 anni, lei 17, ma Rosanna è stata una persona straordinariamente importante nella mia vita. Pensate che mi sono iscritto all’università a Salerno e non a Napoli perché nel frattempo ci eravamo lasciati e io ero così dispiaciuto che non ce la facevo più a andare in giro per la mia città, a rivedere le strade nelle quali avevamo passeggiato, i luoghi nei quali eravamo stati e così via cantando. L’ho rivista a Catania quasi 40 anni e molte vite dopo e per me è stata un’emozione grande anche se forse sono successe troppe cose, forse c’è stato troppo poco tempo, soprattutto per colpa dei miei mille impicci, perché potessimo parlare di noi adesso invece che delle nostre storie, forse semplicemente siamo persone troppo diverse da allora o troppo diverse da come ci eravamo pensati, non lo so, quello che so è che un post non è il posto migliore per pensieri così e perciò salto una casella e vado a quella successiva.

Santa Maria della Scala
Giuro che se riesco a convincere “l’Assenta”, che non è mica facile, e il posto rimane com’è, che neanche questo è detto, Santa Maria della Scala diventerà il mio buen retiro, il posto dove ritirarmi per pensare, scrivere, passeggiare. Non è che ci si può stare tutto l’anno, per carità, ma da giugno a settembre c’è tutto, il mare, Catania a 10 minuti, una costa splendida da un alto, una bellissima spiaggia dall’altro, la signora che fa le granite e cucina saraghi e vongole da Dio, insomma di tutto e di più a portata delle mie possibilità, perché certo che lo so che ad averci i dané, come dicono dalle parti di Daniele Riva, si trova anche di meglio, ma per me Santa Maria della Scala va benissimo, anche se poi mi aiutate a vendere 200 mila copie di Bella Napoli il discorso cambia. Facciamo così, rileggete piano l’ultima frase e quando arrivate a “vendere 200 mila copie” aggiungete, come faceva papà, “passasse l’angelo e dicesse Ammenn”, mi raccomando, con due “m” e due “n”, proprio come faceva lui, che chissà che se lo facciamo tutti assieme questa volta …

Sedie
Le sedie in questione sono quelle vuote, sì proprio quelle che vedete nella foto in prima fila. Certo che lo so che lo fate per timidezza, per discrezione, per quello che vi pare, ma noi che stiamo dall’altra parte del tavolo non vi dobbiamo né interrogare né fucilare, quindi non rischiate niente a sedervi davanti e ci evitate questa angoscia delle sedie vuote, che vi assicuro che l’occhio va sempre là, deve fare ogni volta uno sforzo per saltare la barriera, e non è giusto, che miseria. Facciamo così, io la prossima volta mi porto una guantiera con le sfogliatelle e le offro a chi si siede davanti, però voi nel frattempo fateci l’abitudine, che quelli quando gli scrittori arrivano da Milano mica possono portarvi le sfogliatelle.

Under 18
Concetta mi ha detto che hanno 16-17 anni, un ragazzo e una ragazza suoi ex studenti. Il ragazzo lo avevo incontrato a Napoli qualche mese fa quando era venuto in gita scolastica e io avevo inseguito Concetta e il loro autobus tra Mergellina e Posillipo, ma questa è un’altra storia. Sempre Concettina mi ha ricordato – chi mi conosce lo sa, la parola ricordo nel mio vocabolario è sbiadita assai, quasi non si vede più -, che era rimasto colpito da quella frase di Che Guevara che gli avevo citato, forse perché aveva una maglietta addosso con il Che, non ricordo, una cosa tipo “quando si sogna da soli è sogno, quando si sogna in due è realtà”. La ragazza era la prima volta che la vedevo, forse. Mi hanno avvicinato alla fine della presentazione con il libro in mano chiedendomi una dedica. Mi è venuto spontaneo dire “ma no, siete dei ragazzi, ce la fate a spendere questi soldi?, lasciate stare, ve lo regalo io”, lui mi ha detto, credo, “non si preoccupi”, lei quasi si è offesa. Ho scritto con gioia le due dediche, li ho ringraziati tanto anche se non abbastanza, ho pensato che sono una persona veramente fortunata, ho chiesto anche a loro di scrivere qualche riga di commento al libro dopo che lo avranno letto, mamma mia quanto desidero che lo facciano davvero.

Concetta
Mi dispiace per Lucio Battisti, che già l’avevo maltrattato troppo da giovane perché lui era di destra e io quelli di destra non li ascoltavo a prescindere, giuro, ho fatto anche questo, non ne sono orgoglioso of course, semplicemente penso che anche questo abbia avuto un senso importante nella mia vita. Comunque stavo dicendo che mi dispiace per Battisti ma io lo so cosa dico se dico che ho una donna per amico. Sì, con Concetta sono stato come sto con Salvatore che anche se voi non lo conoscete ve lo dico io che quando ci sto assieme sono felice senza dover fare o dire niente. Guardate che è difficile, molto difficile, perché non è che non fai o non dici niente, è che non lo devi fare o dire, e tu lo senti che non lo devi fare o dire e allora quello che fai o dici viene fuori da dentro in maniera naturale, segue il suo corso, prende la sua strada, senza incontrare resistenza. Io con Concetta nei miei due giorni e un po’ catanesi sono stato così e vi assicuro che così è bello, bello assaje.
Vedete, questa cosa qui per me è così importante che per lungo tempo l’ho cercata anche nell’amore, fino a quando non mi sono fatto l’idea che nell’amore non la posso trovare, naturalmente vale per me non per tutti, diciamo che io non sono il tipo adatto. In “Piccolo trattato delle grandi virtù” André Comte Sponville scrive che “Amare con purezza è consentire la distanza”, in altre parole amare senza possesso, con mitezza, diciamo che io ho altre qualità, forse, ma la distanza nell’amore non la consento, io la distanza la travolgo, me la mangio, e mi sto convincendo che aveva ragione mio padre, chi nasce tondo non può morire quadrato, perciò tanto vale accettarsi.
Ora non ditemi che invece di parlare di Concetta sto parlando di me, perché io sto parlando di lei, di questa “amico” meravigliosa con la quale ho trascorso due giorni come sul molo di Procida, quando mentre Salvatore fa le sue mille cose io guardo le navi che entrano ed escono dal porto e sono felice. Certo che lo so che in questi miei giorni catanesi sono stato io a fare mille cose, ma le ho potute fare come guardando le navi grazie a Concetta. Sì, a Catania ho vissuto due giorni e un po’ straordinariamente belli con la mia amico Concetta. Abbiamo chiacchierato, ci siamo raccontati, mi ha rassicurato quando mi prendevano gli attacchi d’ansia della serie “mamma mia qua finisce che alla presentazione non viene nessuno”, lei sempre lì con quel suo fare dolce, discreto, come quando alla radio non si è voluta sedere di fianco a me ma indietro in fondo, nonostante i ripetuti inviti della giovane conduttrice, neanche fossimo stati in televisione e qualcuno avesse potuto scoprirla troppo protagonista.
Insomma spero si sia capito, è troppo bello avere Concetta per amico, non devi neanche dire troppe cose per ringraziarla, basta grazie Concettì, di tutto, di cuore, ti aspetto a Napoli, ma se per caso non vieni non pensare di esserti liberata di me, perché ritorno io a Catania.
Un abbraccione forte Cuncé.
vincenzo

Cronaca di due giorni annunciati
di Concetta Tigano

Mercoledì 6 aprile
Ore 15,40, aeroporto di Catania, vedo Vincenzo sul marciapiede, zona arrivi , sale in macchina, saluti, sorrisi, ma subito il suo fisico da “fagiolino”, come dice lui, mal si adatta alla mia macchina tondetta e cicciottella che pare, come la banca, costruita intorno a me.
Andiamo verso il centro e mentre io indico “a destra questo, a sinistra quest’altro” vedo con la coda dell’occhio che non segue ciò che dico io ma ha lo sguardo fisso sul paraurti posteriore della macchina davanti a noi, si nota un certo desiderio di estroflettere almeno una decina di tentacoli, tipo polpo Paul, per tenersi in tutte le maniglie interne ed esterne della mia Suzuki rossa.
Appena arrivati, lasciamo l’odiata auto, scambio di regalini, tanti i suoi, pochi i miei! Si va a piedi!!!!
In albergo Vincenzo attacca discorso con il portiere, lo invita alla presentazione del libro, e meno male che non conosce il direttore, la segretaria e il posteggiatore che altrimenti alla Feltrinelli facevamo “La festa di S.Agata 2!”
La serata si conclude ad Acicastello, Stefania Bertelli ricorderà.

Giovedì 7 aprile
Ore 9,30, l’itinerario è questo: albergo – radio Zammù – Feltrinelli – radio Zammù. Vado? No, corro!
Ad un tratto sento “Cuncè, si’ peggio ‘e Cinzia!”, contemporaneamente squilla il suo telefonino, si materializza Cinzia! Bellissimo, tempismo perfetto! :-)))))) Vincenzo subito le propone il mio nome come co-pilota per un improbabile Rally cittadino…!
Poi si va a S. Maria la Scala, giro turistico-gastronomico, anche qui Stefania ricorderà.
Di pomeriggio lo lascio con amici suoi, mi saluta dicendo “Concettì, se alle sei meno dieci non ti vedo in Feltrinelli…io mi suicido!” Che ansia!!! Con questa minaccia macabra sul collo, vado a casa, faccio tutto di corsa, alle sei meno dieci sono alla Feltrinelli ma, mannaggia a me, ho dimenticato la macchina fotografica!!!!
Vincenzo passeggia nervosamente…io seduta, apparentemente calma!!!
Comincia ad arrivare gente, la saletta si riempie, Vincenzo racconterà che li ho portati quasi tutti io…non è vero!
Si comincia. Va tutto a meraviglia!! Si sente nell’aria che la serata funziona, che tutti sono interessati, che questa proposta piace!!!! Sono davvero contenta!!!

Venerdì 8 aprile
Ore 8, cinque noiosissime ore a scuola e poi, dopo impegni e riunioni varie con Vincenzo, torniamo a S. Maria la Scala, mi ha detto di aver perso gli occhiali, e vuole vedere se per caso sono rimasti lì, andiamo con l’alibi degli occhiali, ma io lo so, è la granita assaggiata il giorno prima che vuole!!!!
Disastro!!!! Alla Timpa avevano finito le granite, anzi no, c’era rimasta solo quella al cioccolato, praticamente una non-granita! “Signo,’ se non ci fate una granita al limone, io mi suicido!” …e daglie!!!! Questa frase ha avuto un potere di convinzione notevole, certo è che la signo’ in questione, immaginandosi Vincenzo steso lungo lungo (è proprio il caso di dirlo!!!) a terra con un coltello da cucina in corpo, si impressiona e dopo due chiacchiere ed una passeggiata ci fa trovare la granita pronta!!!!!
In macchina (sig!), manovra per uscire dal posteggio, Vincenzo apre lo sportello e con gli occhi del Tao vede gli occhiali, e lì mi sono sciroppata tutta la tiritera del vedere e non vedere, ma già la sapete anche voi …!!!!
Ore 18,00 siamo all’Aeroporto, bilancio? positivo! Il libro ha avuto la sua vetrina, e abbiamo trascorso due giorni molto gradevoli.
Fine-corsa, si! Ma certo non fine-amicizia!!!!!!!

il segnalibro fatto preparare da Concettina (live è molto più bello)

il segnalibro fatto preparare da Concettina (live è molto più bello)

 

Ciao Pà

Il disegno con il suo faccione sta sempre lì, proprio davanti a me, sulla scrivania. In qualche modo continua a guardarmi, anche se naturalmente in maniera diversa da come ci  “guardava” lui, che anche dopo che abbiamo trovato lavoro e abbiamo messo su famiglia e abbiamo avuto le nostre vite con le nostre gioie e i nostri casini doveva mettere naso e bocca in tutto quello che facevamo, aveva sempre qualche cosa da ridere, aveva sempre un modo, il suo, per fare meglio le cose.
Lui era così, improbabile, prepotente, straordinario. Quando è nato Luca, lo voglio dire anche se mio fratello Antonio si arrabbia, che se avessi avuto la “capa” di adesso l’avrei chiamato Pasquale, lui non appena l’ha visto l’ha preso in braccio raggiante e ha chiesto “perché gli avete messo un nome da femmina?”. Devo avergli detto una cosa tipo “pà, Luco non esiste, Luca è un nome da maschio” e lui come se fosse la cosa più normale del mondo mi ha risposto “ah, ho capito, se era femmina si chiamava Luchessa”.
Sì, lo avevano disegnato così, abbiamo avuto un padre che ci ha amato in maniera esagerata e in questo, in questo caso parlo naturalmente solo per me, resterà per sempre ineguagliabile, proprio non ce la posso proprio fare a superarlo.
Volete sapere una cosa?, a me non “mi” dispiace, se lo merita di non essere superato, lui se avesse potuto studiare sarebbe stato ineguagliabile anche in altri campi e invece lì già con la prima media ce lo siamo lasciato alle spalle.
E adesso sta lì a farmi compagnia, con quel suo faccione appeso alla parete, con quel sorriso che era proprio il suo e che neanche nel ritratto quello finito, con i colori e la cornice e tutto il resto è venuto così bene, con quei suoi occhi buoni che certe volte se non ci fosse il vetro lo riempirei di baci e lo prenderei pure a morsi per la felicità.
No che non accade sempre, solo ogni tanto, accade per i fatti suoi, come ad esempio stamattina che invece di guardarlo soltanto, come succede di solito, l’ho visto, l’ho sentito dentro, gli ho detto mi manchi, mi mancherai sempre “mannaggia ‘a capa toja”, proprio così gli ho detto, poi ciao pà, e poi basta.
Anzi no, dentro di me, sul lato sinistro in alto ho cliccato sul pulsante “mi piace” e mi sono detto adesso lo racconto ai miei amici di piazza Enakapata, credo che gli farà piacere, c’è un sacco di bella gente, ma sì, adesso lo faccio. L’ho fatto e  la giornata si è messa meglio, nonostante la pioggia battente e le tremila cosa che anche oggi ho da fare.
Ciao pà, e non ti preoccupare, che anche se facciamo vite complicate le principali le abbiamo imparate e questo aiuta, aiuta tanto.
Mò non ti arrabbiare, certo che sei stato tu ad insegnarcele, ma non sei stato solo tu, anche mamma, le nostre esperienze, insomma la vita che abbiamo fatto.
Dici che però se non era per te …? Vabbuò, lassa fa ‘a te, ci stai solo tu, e non essere esagerato come al solito, fosse ‘na vota ca dicisse “hai ragione tu”. Vabbuò, vabbuò, a ragione se la pigliano i fessi, e ti pareva che non tenevi pronta la “chiusura”.
Pà, te posso dicere ‘na cosa? Tu si ‘na cosa grande, ti voglio bene, sei stato il padre più meraviglioso del mondo.
Lo so che lo sai che dico sul serio, è la verità, il fatto è che tu sei insopportabile, non ti stai zitto neanche quando qualcuno vuole parlare a tuo favore.
Vabbuò, mo non cominciamo un’altra volta che tengo un mare di cose da fare.
Ciao pà. Ti saluto. E grazie, anche a nome di Antonio, Gaetano e Nunzia.

Anna e Giancarlo

Non dite che non avete visto neanche una volta nella vostra vita Blade Runner altrimenti mi arrabbio. Comunque se non lo avete fatto qui trovate il pezzetto più commovente del film. Sì, proprio quello che ho voglia di ricordare per raccontarvi di una giornata, quella di ieri, che ogni tanto anche noi umani abbiamo la fortuna di vivere.
La giornata prevedeva il viaggio a Caserta, che oramai con questa storia dell’alta velocità e tutto il resto è degrado è quasi peggio che andare a Roma, dove nel primo pomeriggio sono stato impegnato in una iniziativa su Statuto dei Lavoratori e sua attualità a 40 anni dall’Autunno caldo.
Nei giorni precedenti avevo chiamato Sondra, la mia amica del cuore, che riesco a vederla sempre meno di quello che vorrei, per dirle che se era libera sarei potuto arrivare da lei in mattinata e avrei potuto mangiare da lei, e mi ero scritto con Anna, per dirle che finito il dibattito mi avrebbe fatto piacere incontrare da qualche parte lei e Giancarlo per bere un caffé e donarle una copia di Bella Napoli.
Prima che me lo diciate voi me lo dico io “che vita è una vita in cui per incontrare i tuoi amici li devi ‘incastrare’ tra una discussione e l’altra”. Prima che me lo chiediate voi ve lo dico io che è una vita che ha un sacco di controindicazioni ma è la vita che mi sono scelto, quella che mi piace. E poi come vi ho detto tante volte io sono nato con la camicia, sono molto fortunato, cosicché non solo Sondra era libera ma Anna e Giancarlo mi hanno invitato a cena e mi hanno anche detto che i libri degli amici si comprano, che loro l’avevano già fatto, e che ci volevano pure la dedica.
Ve l’ho detto che in realtà la giornata non è che non era cominciata bene ma anzi era cominciata da schifo? No, e allora ve lo dico adesso. È la storia delle controindicazioni. Diciamo che il mio corpo cerca di avvertirmi in molti modi che non riesce più a stare indietro alla mia testa, che il tempo passa anche per me, che dovrei fare una vita più quieta e regolata e aggiungiamo anche che sarei stupido a non ammettere che ha ragione lui. Quello che lui però non vuole capire è che per fare una vita più quieta e regolata io, non potendo permettermi di tagliare alla voce “lavoro lavoro”, dovrei tagliare alla voce “lavoro piacere” e allora che vita sarebbe la mia?. Su aiutatemi, quando lo incontrate diteglielo anche voi che un po’ di ragione ce l’ha anche la mia testa.
Comunque per tornare al punto ieri prima di uscire di casa me la sono vista brutta, ma brutta brutta brutta. Il risultato? Sono arrivato tardi a Caserta, volevo fare una passeggiata con Sondra e non ho potuto farlo, mi è venuta a prendere in auto e ce ne siamo andati a casa.
Da qui la giornata ha preso un’altra piega. Agitato ho continuato ad essere agitato, però abbiamo chiacchierato e riso e chiacchierato e poi lei si è arrabbiata tanto, per fortuna non con me, e poi abbiamo mangiato una meravigliosa pasta e zucca e poi mi ha accompagnato alla Feltrinelli e poi alla Camera di Commercio, sede dell’iniziativa.
Anche la discussione è stata bella e partecipata, non sempre accade, sarà stato il tema, molto attuale, ma di questo vi racconterò un’altra volta da un’altra parte. Poi mi è venuta a prendere Anna e abbiamo raggiunto Giancarlo, ai fornelli, a casa.
Ora io potrei cominciare dalla casa, bellissima, ma non perché ci stanno mobili di famiglia bellissimi, che quelli per esserci ci sono, ma perché è una casa piena piena di senso, di significato, di amore, tra queste due persone straordinarie che stanno assieme da 43 anni.
Oppure potrei cominciare dal menù, sì, perché mi hanno fatto trovare anche un menù, Menù Bella Napoli, così composto:
10 marzo 2011 Spagettata con Vincenzo, Menù: Alici ammollicate; Gamberi e zucchine, Crudo di Pezzogna alla vinaigrette; Linguina di Gragnano a vongola sottile; Mezzi paccheri alla pescatrice; Filetto di orata all’acqua pazza; Treccia di bufala, Frutta barchetta; Profiteroles Chirico; Vini campani. Detto che letto così di seguito è una cosa e visto stampato sul menù, tutto in fila, in corsivo, al centro, è un’altra, aggiungo anche che l’unica cosa che era buona ma non eccezionale era la treccia di bufala, perché vi assicuro che tutto quello che hanno preparato Giancarlo e Anna era allo stesso livello della cena che Akira Tonomura, lo scienziato che ha inventato il microscopio più potente del mondo, ha offerto a Tokyo a Luca, a Franco Nori e a me (per saperne di più leggete Enakapata, il libro e il blog).
E invece comincio, e finisco, da Anna e Giancarlo. Era la seconda volta che ci vedevamo, siamo stati qualche ora assieme eppure mentre in treno me ne tornavo a casa ho rimpianto di non essere rimasto a chiacchierare fino a notte fonda, di non essere restato a casa loro a dormire.
I miei amici di più lunga data se ne meraviglieranno, con il tempo tra le controindicazioni sto sviluppando anche la sindrome di Proust, nel senso che ho bisogno di tornare tra le mura amiche, di ritrovare stanze e mobili disposti “come sai tu”, mi rifiuto di svegliarmi la mattina e di non sapere da che parte scendere per andare in bagno, che insomma anche se continuo a dormire spesso fuori, con la vita che faccio non sarebbe possibile altrimenti, lo faccio sempre più raramente con piacere.
E invece ieri sera l’ho pensato. E ho sorriso. E sono stato felice di pensarlo. Sì, da Anna e Giancarlo mi sono sentito come a casa.
Dite che è perché a un certo punto io e Anna abbiamo scoperto che il suo e il mio papà hanno lavorato tutti e due nella Società Meridionale Elettrica? Che sono stati tutte e due a Cotronei, sulla Sila, il posto dove sono nato? Che hanno conosciuto tutti e due l’ingegnere Massaioli che a voi non dice niente e a noi tante cose? Che forse si sono anche conosciuti? Che è stato molto tenero scoprire negli occhi dell’altra/o quanto avremmo voluto poterglielo domandare?
Io dico che tutto questo e tanto altro è stato bello, di più, straordinario. Ma penso che non c’entra. Come non c’entra il menù e non c’entra la casa. C’entrano Anna e Giancarlo. Sono proprio loro, è il loro modo di esserti amico quello che mi ha fatto sentire a casa mia.
Dite che Anna e Giancarlo sono proprio loro anche nei ricordi, nella casa, nel menù? Ecco, così si, così penso che avete ragione voi, così sono d’accordo. È troppo bello avere amici così. Grazie di cuore.

Network Bella Napoli

Quella quasi tutta la mia vita funziona così, anche se adesso sarebbe troppo lungo spiegarlo qui. Comunque alle 5.30 di stamattina mi sono svegliato con questo tarlo in testa: che fare affinché Bella Napoli arrivi ai napoletani che non si nascondono la gravità e la profondità dei problemi che attanagliano la loro città e che però non ci stanno ad essere rappresentati solo dalla monnezza, che c’è, dalla camorra, che c’è, dalla classe dirigente, che non c’è, e così via discorrendo. Come ho scritto nel libro, non mi interessa affermare che Napoli non è solo camorra, Gomorra o monnezza, lo trovo ovvio, banale, equivoco. Ho voluto invece prospettare una condizione di possibilità, di riscatto, e ho voluto farlo raccontando di napoletani normali che danno valore al lavoro, che sentono la responsabilità di fare le cose per bene, che mettono amore, passione, interesse in quello che fanno. Sì, è questo il messaggio che vorrei fare arrivare ai napoletani e anche agli italiani che non si accontentano dei cliché, neanche quelli modello pizza e mandolino.

Ciò detto debbo però confessare che il tarlo delle 5.30, di per sé, non mi ha portato da nessuna parte. Poi però ho dato 5 copie del libro a Beppe che le metterà in bella vista in bottega e magari qualcuno si incuriosice e ne compra una copia, poi ho incrociato su Facebook Rosa Cennamo ed è nata la storia che ho raccontato qui, finché a un certo punto il tarlo è diventato un’idea: la vendita porta a porta, come si faceva quando ero giovane, la domenica, con l’Unità, che poi era anche un modo per parlare con le persone, per sentire gli umori, per ascoltare le richieste e le critiche ma è meglio che lasciamo perdere altrimenti mi metto a piangere.
Vi state chiedendo insomma cosa ho in mente di fare? Ve lo riassumo per punti, così faccio prima e sono più preciso, perché per me è una cosa seria e importante. Facciamo così, metto prima il cosa vorrei fare, poi il come vorrei farlo e infine il perché, secondo me, dovreste farlo:

Cosa

1. Vorrei creare su tutto il territorio nazionale, nelle grandi così come nelle piccole città una rete di amici che mi aiutino concretamente a far leggere, conoscere, comprare Bella Napoli.

Come
1. Chi è interessato mi fa una richiesta di 3 o 5 copie (in casi eccezionali si può valutare una richiesta di 10 copie, anche per la ragione che potete leggere al punto successivo).
2. Io pago le copie in una Feltrinelli qui a Napoli, e voi le andate a ritirare  nella Feltrinelli più vicina a voi (è un servizio che offrono da tempo; è vero che dal punto di vista economico non ci guadagnate niente ma naturalmente non vi viene chiesto neanche di spendere niente).
3. Voi ritirate le copie, se le vendete mi mandate i soldi (anche in questo caso senza costi per voi, e con un minimo dispendio di tempo) se non le vendete me le restituite (ci incontriamo, vi mando io un corriere, ecc., comunque sarà mia cura torvare la soluzione senza impicciarvi troppo).

Perché
1. Per partecipare a un progetto che vorrei continuasse, generasse ulteriori contenuti e iniziative, producesse nuove idee. Un progetto con al centro le persone e il loro lavoro. L’idea  è in definitiva  quella di partire da Bella Napoli per arrivare a Bella Italia, insomma quella di raccontare l’Italia attraverso il lavoro.

2. Per contribuire a costruire dal basso una rete che poi possiamo tutti utilizzare alla pari per altri progetti e iniziative.

3. Per amicizia e affetto nei miei confronti. Come  Salvatore Veca, “non mi piace l’ospitalità opportunistica o quella sciatta, sbracata. Mi piace l’attenzione. E la cura, discreta, nel ricevere, nella cerchia della philia, ha una sua naturale bellezza”.

Ciò detto, aggiungo alcune altre considerazioni che nella prima edizione di questo post non ho scritto perché mi sembrava un pò scontato:

1. Se la mia proposta esperimento dovesse funzionare, come spero,  sul piano pratico per me questo significherà investire tempo e soldi, due risorse assai scarse e dunque preziose in questa fase della mia vita.  La mia insomma non è una proposta commerciale. A Napoli il libro è stato recensito molto bene e va alla grande, ho ragionevoli motivi di ritenere che nelle prossime settimane la sua visibilità aumenterà di molto anche a livello nazionale in termini di recensioni, presentazioni, presenza nelle librerie e vi assicuro che per un libro delle sue dimensioni va più che bene così.

2. Come ho scritto nel mio libro, penso che “la grandezza, le speranze e le opportunità di una nazione, la nostra più delle altre, sono strettamente legate al rispetto che essa ha, e mostra, per il lavoro e per chi lavora, a ogni livello. Se l’Italia non ha più una visione condivisa del proprio futuro, se è diventato un paese di poche speranze e con scarse opportunità, in primo luogo per le generazioni più giovani, quelle che più delle altre avrebbero invece bisogno di proiettare l’ombra lunga del futuro sul presente, è esattamente perché alle vie del lavoro e della partecipazione ha preferito quelle della ricchezza senza capacità, del comando senza responsabilità, dell’arrivismo senza regole, della notorietà senza merito.
Mio padre lo avrebbe detto a modo suo, con il vocabolario di un operaio che aveva conseguito la licenza di quinta elementare con l’avvento della seconda guerra mondiale, ma state certi che lo avrebbe detto che non ci vuole un arco di scienza per comprendere che se non si ridà valore, dignità e considerazione sociale al lavoro e a chi lavora non si va da nessuna parte”.
Ecco, l’idea che mi sono fatto è che raccontare il lavoro può essere una buona maniera per  contribuire a ridare senso e identità al nostro Paese e per questo, l’ho annunciato nel corso della presentazione a Napoli, sto cercando di trovare le risorse per portare avanti questo progetto.

3. Da solo non ce la faccio, non ce la posso fare. Molte/i di voi hanno delle belle teste, dei bei cuori, dei bei rapporti umani, in minima parte li ho potuti verificare da vicino, per la maggior parte lo capisco dalle belle cose che scrivete sulla piazza di Enakapata. A me questa storia del Network Bella Napoli è sembrato un modo stirngere ancora più rapporti e ancora di più i rapporti, un modo per cominciare un viaggio, per incontrare esperienze, avendo un’occasione concreta senza la quale a volte, preso dalle mille cose che faccio, non riesco a dare la necessaria priorità.

4. Penso di avere l’età giusta per cominciare questo viaggio, non vado di fretta, dare mi piace come ricevere e imparare più di insegnare, ma ho bisogo del vostro aiuto. Naturalmente le cose si possono fare anche in altra maniera (presentazioni, incontri, ecc.) ma il mio istinto mi dice che questa cosa dei libri da vendere crea una selezione, determina un legame. Naturalmente posso sbagliarmi e dunque continuo a restare in ascolto. Come fare per dirmi cosa ne pensate, con la sincerità necessaria, lo sapete.
Grazie a tutte/i voi a prescindere.

Piazzetta Augusteo

Questa storia qui comincia a piazzetta Augusteo. Funicolare centrale. Ore 5.35 p.m. Sono di ritorno da Roma e ho nello zaino, assieme all’immancabile Mac, 6-7 libri di varia umanità, che tradotto in soldoni vuol dire che non ce la faccio più a camminare con tutto quel peso addosso.

Scendere o non scendere, questo è il (mio) problema. No, che avete capito, io con la funicolare da piazzetta Augusteo, in pratica via Roma, ma sì, proprio la vecchia via Toledo, devo salire per andare a casa mia, al Petraio. Scendere o non scendere si riferisce al dopo.

Alle 5.40 la funicolare va. Io mi dico “scendo”. Tra i denti. Non abbastanza tra i denti. La signora a fianco mi dice “questa sale”. Sorrido. Le faccio cenno, con la testa, di sì. Aggiungo, a parole, che scendo si riferisce al dopo, “dovrei comprare qualcosa da mangiare”. Lei non sorride. Mi dice “già, ogni tanto tocca anche a voi”. Per fortuna scoppiamo a ridere tutti e due. Ancora qualche chiacchiera e poi scendo. Dalla funicolare. Poi salgo verso casa.
Arrivo. Metto giù Mac e libri senza togliere neanche il cappello. Se lo faccio è la fine, dopo il cappello sarebbe il turno delle scarpe e poi, complice una piroetta degna di maggior fortuna, dell’impermeabile. A quel punto non mi smuoverebbero più neanche le cannonate. E allora addio cena.

Mi ricordo che ho promesso di dare una copia di Bella Napoli al mio vicino. Gliela porto. E scendo. Questa volta proprio nel senso che scendo. La pioggia ha concesso una tregua. Telefono a Cinzia. Scendere al corso a fare la spesa o passo anche per la Feltrinelli, questo è adesso il problema. Lei prima si sintonizza sul mio canale stanchezza e mi suggerisce di fare le spesa e tornarmene a ca. Poi cambia canale. Sul secondo trasmettono “fai le cose che vuoi fare” e così mi dà la spinta decisiva. Scendo ancora. Direzione Piazza dei Martiri. Procedo veloce ma il pensiero del panino con la mortadella è più veloce ancora. Mi dico “Vicié, oggi hai mangiato solo qualche pasticcino, se non metti qualcosa nello stomaco non ci arrivi neanche alla Feltrinelli”. Entro nella prima salumeria sulla sinistra.
Entro. Al banco un pakistano che parla un perfetto italiano. Gli dico del panino, piccolo, mortadella e provola abbondante. E lui va.

Passano un paio di minuti ed entra una signora, mi dirà poi che ha 68 anni, in pigiama, con uno scialle ampio sulle spalle, che si siede sulla seggiola di fianco alla cassa.

La signora chiede, in napoletano, se il figlio è uscito. L’uomo che mi sta facendo il panino risponde, in impeccabile napoletano, che è andato a fare un servizio e tornerà tra mezzora.

Poco dopo entra un altro signore pakistano per comprare del latte. La signora gli chiede se ha chiesto alla moglie cos’è il biscuit. L’uomo non risponde, la signora gli da un colpo affettuso con il giornale sul braccio e mi chiede se lo so io. Un pò mi preoccupo, anzi no, mi diverto tanto. Io non lo so, ma lo associo a Beppe, esco fuori e lo chiamo. Beppe mi spiega che è un tipo di porcelllana pregiato perchè, spero di aver capito bene, viene cotto due volte.
Entro e lo dico alla signora, che è felice, mi dice che sua nonna, che è morta 48 (quarantotto) anni fa diceva a lei che era una bambola di biscuit e che lei adesso lo ripete alla nipote, ma non aveva mai saputo cosa significasse.

Sorrido, pago 3.50 per il panino e appena esco ne faccio fuori quasi un terzo con un morso (era davvero piccolo però).

Arrivo alla Feltrinelli e il mio amico Gianni, il direttore, mi dice che stanno presentando il libro di Remo Bodei. Mi catapulto. Il tema è l’ira. Il titolo della collana sui 7 vizi capitali che la casa editrice Il Mulino ha affidato al mitico filosofo.
Lo ascolto come ogni volta rapito dalla sua cultura e dalla sua mitezza. Ci svela che persino lui viene preso dall’ira e ci fa anche un pò sorridere quando racconta della multa che si è letteralmente mangiato quando lo hanno multato per la seconda volta per lo stesso divieto di sosta.
Lo invidio quando racconta che se n’è andato negli Stati Uniti quando nell’università italiana sono stati introdotti i crediti e lo hanno cominciato a criticare per i suoi programmi di troppe pagine.

Finisce tutto troppo presto per il piacere e la cultura,  quasi troppo tardi per la spesa.
Il quasi lo tolgo quasi subito, il tempo che 4-5 assidui frequentatori delle presentazioni, di quelli un pò encomiabili e un pò incredibili che mettono assieme Bodei e me, mi avvicinano e mi cominciano a parlare di Bella Napoli e della presentazione di 2 settimane prima.

Sono una ventina di minuti, naturalmente gratificanti per me, ma alle 8.10 p.m. posso mettere una croce sulla mia spesa al supermercato. Da vecchio scugnizzo napoletano non mi scoraggio, decido che dopo il panino mortadella e provola me ne vado da Leopoldo e mi sparo due zeppole di san Giuseppe. Arrivo da Leopoldo e le zeppole sono finite, cioè due ci sono, ma mignon.

L’istinto mi dice di andarmene indignato, la ragione di comprarle prima che me le portino via. Siamo o non siamo discendenti di Voltaire? Prendo, pago, mangio. Alle 20.40 riprendo la funicolare centrale. Non lo so se è stata la cultura o il panino piccolo mortadella e provola abbondante insieme alle 2 zeppoline. Sta di fatto che sono tornato sazio. Vabbé non esageriamo, diciamo contento.

Passione

Dico la verità, non so neanche io da dove cominciare. Vabbè,  comincio da quello che avrei dovuto dirgli e non gli ho detto: Mister Turturro, in questo libro c’è il soggetto per Passione 2. Sì, perché dopo quella per la musica, bisogna che lei racconti la passione dei napoletani per  il lavoro.
Ecco, è questo che avrei dovuto dire, in inglese, invece di impapocchiare un pò di confuse parole in italiano che se non era per Francesco neanche la foto riuscivo a farmi. Il fatto è che “questo” mi è venuto in mente il mattino dopo intorno alle 7.00 mentre io me ne andavo a Fisciano per fare gli esami e Mr. Turturro immagino dormisse beatamente da qualche bella parte.
Adesso che mi sono confidato non mettetevi però a fare i sapientoni, perchè volevo vedere voi in due minuti, mentre almeno altre  20 persone  lo salutavano, lo abbracciavano, gli parlavano addosso, cosa avreste fatto al posto mio. E poi anche se non sembra io sono un timido a cui non piace dare fastidio al prossimo, specialmente quando il prossimo è venuto là per fare una cosa sua e a te neanche ti conosce. E poi e poi la vita ormai me l’ha insegnato che se facevo tutto per bene magari non succedeva nulla e invece così non succede niente.
A parte gli scherzi, talvolta ancora mi sorprende il fatto che persino in questi giochi qua – perché davvero alla mia età o lo hai capito che è un gioco o è meglio che, come diceva Mauro P. detto ‘a moviola a causa della parlata oltremodo lenta e strascicata, è meglio che ti togli le targhe e te ne vai allo scasso – l’idea di non esser riuscito a fare una cosa come andava fatta mi disturba assai; si, sono stato disturbato per tutto il viaggio che poi ci hanno pensato gli studenti a disturbarmi con il loro livello di (im)preparazione, ma questo ve lo racconto magari un’altra volta.

Tornando alla passione con la P maiuscola, mi piace ricordare quella che abbiamo trovato mercoledì sera all’Associazione Minerva di Giugliano, dove siamo stati invitati a presentare Uno, doje, tre e quattro. Una passione per la lettura, per il discorso, per il confronto, per l’amicizia, che ci ha coinvolto tutti e ci ha permesso di trascorrere una magnifica serata. Sì, all’Associazione Minerva ho trovato un pezzo di quella Bella Napoli che piace tanto a me. Grazie di cuore.

Mercoledì 16 febbraio 2011

Va bene lo ammetto, ci ho messo un pò di tempo, ma infine eccomi qua. Anche la “prima” di Bella Napoli è andata, con il suo carico di adrenalina e le sue incredibili sensazioni.
Com’è la frase che Morpheus dice a Niobe in Matrix Reloaded? “Esistono alcune cose a questo mondo, capitano Niobe, che non cambieranno mai. Altre invece cambiano.”? Esatto.
Tra le cose che non cambieranno mai ci sono la mia ansia, l’emozione, infine la meraviglia nel riscoprirmi a pensare a tutte le persone che sono disposte a fare delle cose per me, a essere mie complici, a sfidare il tempo (quello che si misura con i minuti secondi non con i centimetri cubi di pioggia, che tanto quella non manca mai) e le troppe cose da fare pur di non farmi mancare amicizia e affetto.

Non starò qui a fare l’elenco che non basterebbe un post solo per quello, dirò per tutte/i di Cristina e di Serena, che a chi c’era non ho bisogno di dire niente e a chi non c’era dico leggete la prefazione e la postfazione al libro e capirete che non esagero, di Luca che come suo nonno prende il lavoro “’e faccia” e i suoi 28 anni ha voluto festeggiarli con me, di Irene che parte domani per la Spagna e come i fiori tornerà a maggio e pure a maggio nuje stamme ‘cca, e di Nando che ha il difetto di essere uno juventino e il pregio di essere un Santoro, per la precisione il maggiore dei Santoro post Luigi, con tutto il carico di ironia, disponibilità, affetto, rigore che la casata richiede.

Sì, lo confermo, in contesti e con persone almeno in parte diverse, mi è capitato lo stesso sia con Uno, doje, tre e quattro, la fantastica avventura che sto vivendo con Viviana Graniero, Daniele Riva e Carmela Talamo, che con Enakapata, che come ho detto l’altra sera è destinato ad avere per sempre un posto a parte nel mio cuore per tutto quello che significa per me.
Che cosa cambia, dunque? Dal punto di vista delle principali non molto. Diciamo che cambiano alcune subordinate e magari una coordinata.
Per esempio ad appena 10 giorni dalla sua uscita in Campania mi sembra evidente che l’interesse dei media per Bella Napoli, per ora a livello regionale, speriamo più avanti anche a livello nazionale, è molto più alto di quello registrato per gli altri libri. Direi che una cosa così non accadeva dall’uscita de La casa dei diritti, ma allora c’era la prefazione di un Sergio Cofferati all’apice del suo prestigio a fare oggettivamente da traino.

Ecco, in questi giorni ho pensato che propria la possibilità che Bella Napoli travalichi i confini abituali dei miei libri in termini di pubblico richiede uno sforzo maggiore da parte mia di tenere il libro nella dimensione in cui l’ho pensato. Sia chiaro: non sto dicendo che così sarà e neanche che me lo auguro o che lavoro perché ciò avvenga, che quello lo faccio ogni volta, ci mancherebbe altro, sto dicendo che questa volta ho delle sensazioni diverse, avverto più forte questa possibilità che, per tutta una serie di ragioni, matura “sponte sua”.

Per farla breve, che questo post da diventando un romanzo, dico che sinceramente a me è piaciuta molto l’insistenza di Cristina Zagaria sul fatto delle storie normali di 12 napoletani al lavoro, nel senso che la chiave della normalità è secondo me essenziale per comprendere la natura più intima e profonda dei miei 12 racconti.
La mia non è un’inchiesta, nè sono andato a caccia di “eroi” che in mezzo al marasma generale si distinguono per la loro capacità, per il loro rigore, per la loro determinazione a fare le cose per bene perché è così che si fa. No, senza falsa modestia, credo di aver fatto di più perché ho cercato di racocntare persone normali che normalmente fanno quello che devono fare. Questioni di archetipi, insomma, perché se c’è, sta qui secondo me la possibilità di un futuro diverso per Napoli, nelle tantissime persone che ogni giorno fanno normalmente il loro dovere. È questa la forza di Bella Napoli. Come continua a ripetermi Emma, una delle protagoniste dei miei racconti, “noi non siamo “modelli” da perseguire, siamo persone normali con normali difetti, che tantissime volte hanno pensato di non farcela e che tante volte ce l’hanno fatta lo stesso e qualche volta non ce l’hanno fatta, perché non è che obbligatorio farcela, in particolare in una città come Napoli”.

Ecco, io penso che Emma abbia ragione, l’ho pensato dall’inizio, ho eliminato cognomi e possibili riferimenti anche per questo, perché come dicevo non scommetto sugli eroi ma sulle persone normali e sulla possibilità che presto o tardi siano loro, le persone normali, i protagonisti del futuro di questa città.
È per questo che a mio avviso ha un senso l’idea, che ho anticipato a chi c’era mercoledì, di continuare a raccontare Bella Napoli, di trovare il modo di raccontarne mille e poi 10 mila di napoletani che naturalmente, ogni mattina, si alzano e cercano di fare bene quello che devono fare perché in questo modo danno un senso alla loro vita.

Non lo so quando sarà, ma qualcosa mi dice che presto o tardi sarà. Sì, perché come ho scritto concludendo l’introduzione al volume, “questa è una città che non ti regala niente, neanche la sua bellezza straordinaria, unica, anche quella te la devi faticare, a meno che non ti accontenti delle cartoline. Ma tanto noi ci siamo abituati. E quando vinceremo lo scudetto della civiltà vedrete cosa saremo capaci di fare, altro che Maradona è meglio ‘e Pelé”.

La giacca

Certo che lo so che solo gli “over non ve lo dico quanto” si ricorderanno che è una bellissima canzone di Claudio Lolli, che poi magari uno di questi giorni ve la faccio sentire su Facebook, ma tanto la giacca del titolo non è quella lì, ma la giacca che avrei voluto comprare per la presentazione di Bella Napoli  di mercoledì.
Sì, avrei voglia di una giacca nuova, ma per me è sempre un problema trovarla con i saldi, non tanto per i 197 cm di altezza, ma per le braccia troppo lunghe, ci vorrebbe una drop 8, ma questi non le fanno quasi più le drop 8, a meno che non decidi di andare in un negozio specializzato e sei disponibile a spendere una cifra esagerata.
No, io non sono disponibile, e non solo per un fatto economico anche se pure quello conta, ma perchè poi in fondo con le giacche non ci prendo molto, bisogna abbinarla con i pantaloni e le scarpe giuste, insomma è una complicazione, diciamo che amo di più vestire “casual”, oppure scombinato, come diceva Luigi Santoro, sì, proprio lui, il mio amico – maestro – fratello maggiore a cui è dedicato Bella Napoli.
Talmente che mi metteva in croce per il mio modo di vestire che la storia della prima volta che sono arrivato a casa sua con il mio esckimo innocente, la barba e i capelli lunghi se la ricordano ancora sia Gianna, la moglie, che Nando, Massimo e Fabrizio, i figli. Sì, diciamo che  mella storia della famiglia Santoro rimarrò incaccellabile per due cose, per quanto ero brutto, di più, cavernicolo, conciato in quel modo e per la mia interpretazione de “Il vestito di Rossini”, sì, guardo caso proprio quello che nel ritornello fa “aveva solo un vestito da festa, se lo metteva alle grandi occassioni, ma poi gli dissero domani ai padroni, gliala faremo faremo pagar”.
Dite che vi devo far sentire anche questa su Facebook? Sarà fatto. Però voi se vivete o passate dalle parti di Napoli mercoledì 16 febbraio non dimenticate di venire alla Feltrineli Libri e Musica di Piazza dei Martiri. Secondo me ne vale la pena, poi vedete voi.

Trica trica e vene pesante

Come quasi tutti i proverbi, napoletani e non, anhe questo del titolo viene utilizzato in molti modi, uno dei più grandi filosofi del novecento, Pasquale Moretti, come lo chiama mio fratello Antonio da quando nostro padre non sta più da queste parti, lo utilizzava come minaccia, anzi no, come avvertimento, perchè papà non minacciava, quando diceva una cosa la faceva, e devo riconoscere che in vario modo l’abbiamo ereditata tutti questa brutta abitudine.
La faccenda funzionava così. Tu facevi una cosa che lui riteneva sbagliata, e lui ti diceva di non farla più. Tu la rifacevi, e lui che anche se gli avessi spiegato cos’era il libero arbitrio ti avrebbe risposto che fino a quando stavamo in quella casa comandava lui, ti diceva “guagliò, attenzione, trica trica e vene pesante”. Era il codice rosso in salsa nostrana, da quel pnto in poi sapevi che prima o poi, continuando così, le avresti prese di brutto. Non si poteva scappare, dovevi decidere le priorità, se era meglio fare e pagare il conto o era meglio rinunciare. E ognuno di noi naturalmente decideva di volta in volta. Per me ad esempio funzionava più o meno così: occupazione della scuola? fare e abbuscare; concerti rock (dai 14 ai 18 anni, che non è che fosse un tiranno il mio papà)? Idem come sopra. Brutto  voto a scuola? Studiare di più e migliorare al più prestp perchè altrimenti erano dolori di quelli seri, seri seri.
Ora voi vedetela come vi pare, ma io spesso penso che se mi sono innamorato del processo decisionale a tal punto da propinarlo ai miei studenti del corso di sociologia dell’organizzazione e soprattutto se ho imparato bene l’importanza dell’asse libertà di scelta, valutazione di vantaggi e svantaggi, assunzione delle responsabilità conseguenti, disponibilità a godere dei vantaggi e a pagare i prezzi delle scelte che si fanno lo devo molto anche a lui, al nostro grande filosofo con la quinta elementare.
Adesso voi non ci crederete, o forse si, perchè in fondo accade lo stesso anche a voi, tutto questo mi è tornato in mente pensando alle traversie che stanno accompagnando Bella Napoli, che sarebbe dovuto uscire il 26 gennaio, poi il 3 febbraio, e invece ancora non si vede in giro. Ora, dato che in questo periodo non è che mi gira proprio per il verso giusto, niente di che, è che sono proprio io che vado a tre, che batto in testa, come dice un mio amico meccanico, mi stavo facendo prendere dal nervosismo quando mi sono detto, “Viciè, nun ce pensa’, trica trica e vene pesante, vedrai che Bella Napoli sarà un successone”. Sarà la potenza di papà, ma mi sono messo a ridere e mi è passato tutto. Intanto stasera me ne vado a Piano di Sorrento assieme a Viviana, Cinzia e Francesco presentare Uno, doje, tre e quattro, che quello un successone lo è già.

Mi arrendo

Sì, diciamo anche che lo faccio con piacere, ma la verità è che mi arrendo.

Avevo pensato di dedicare un nuovo blog e un progetto a Bella Napoli, ma non ce la faccio a portarlo avanti, almeno per ora. Sto talmente impicciato che faccio fatica anche solo ad aprirle le pagine di tutte le cose che dovrei aggiornare e così non funziona, bisogna introdurre dei correttivi.

Comincio dalla cosa che in questo momento mi fa male di più, chiudo il blog dedicato a Bella Napoli, in maniera tale che ricordo a me stesso che la faccenda è seria e non ammette repliche.

Di Bella Napoli naturalmente continueremo a parlare qui, come del resto già facciamo per Uno, doje, tre e quattro, e anche questo in fondo non è detto sia un male.

Per quanto riguarda il nuovo progetto, quello che avevo chiamato Bella Napoli, Italia, per adesso si ferma, poi si vedrà.

Questo è tutto, per ora. Domani però vi racconto cosa ho provato vedendo il libro finalmente in libreria.

Sposarsi non è un verbo di cui l’uomo conosca il significato

di Adriano Parracciani

Sposarsi non è un verbo di cui l’uomo conosca il significato.
Ed è per questo che  vado da molto tempo parlando di una bizzarra idea: quella del matrimonio a tempo.
Si un matrimonio che scade, proprio come l’assicurazione dell’automobile, o un come contratto d’affitto. L’idea è semplice: il matrimonio è un contratto che dura cinque anni, alla scadenza si può rinnovare oppure decade automaticamente, senza bisogno di avvocati, cause, liti, ecc ecc. Si va di cinque in cinque fino al decadimento o alla morte di uno dei contraenti.
Va bene, direte voi, la solita pensata atipica di Adriano, due risatine e finisce là. Ebbene vi stupirete leggendo le righe seguenti.
Un giorno del 2007, mentre sto sfogliando il giornale, mi cade l’occhio su un articolo: “Matrimonio a tempo: 7 anni e via“.
La lettura è incredibilmente eccitante, non solo per la proposta che va esattamente nella direzione della mia idea, ma anche per chi la fa.
Dall’articolo si legge che la tedesca frau Gabriele Pauli, leader bavarese candidata alla presidenza della CSU, il partito più conservatore tra i due partiti cattolici tedeschi, intende proporre la riforma dell’istituto matrimoniale ponendo una validità di sette anni scaduti i quali il matrimonio si annulla, lasciando ai conigui la possibilità di rinnovarlo, risposandosi. Ora, anche se la proposta si è sfortunatamente  arenata, e anche se è della CSU, io dico W frau Pauli.

Post sulla felicità

L’idea stavolta mi è stata data dai post di Rossella Cacace e Grazia Leone.
Le loro parole sul diritto ad essere felici e sulla determinazione necessaria per realizzare tale diritto possono essere il punto di partenza per una nuova, sono convinto bellissima, discussione.
Dite che la lettera sulla felicità l’ha già scritta Epicuro? Infatti, i nostri saranno i post sulla felicità. Forza, donne e uomini di Piazza Enakapata, raccontate la vostra ricerca della felicità, cosa avete fatto e cosa intendete fare affinché, riflettendo sulle vostre vite, possiate cliccare sul pulsante “mi piace”. Non si tratta insomma di dare consigli o, meno che mai, ricette sulla felicità, semplicemente di raccontare se stesse/i e il proprio rapporto con la ricerca della felicità. Naturalmente, nel rapporto con la felicità ci sta anche il fatto di non averla ancora trovata  o di averla persa e non averla ancora ritrovata.
So di poter contare su di voi. Buona partecipazione.

Deborah Capasso de Angelis
In questo periodo della mia vita penso spesso alla felicità. Ma faccio un errore, la lego indissolubilmente ai miei desideri. Sono molte le cose che desidero ed allo stesso tempo non so di preciso se poi mi renderanno felice.
Poi,inevitabilmente, il pensiero corre ai momenti di maggiore esaltazione, di effervescenza, di distacco dal quotidiano e accade una cosa strana….sono ancora felice.
Non è un tuffo nel passato o un vivere di rimpianti, non voglio rivivere quei momenti che sono unici ed irripetibili è semplicemente il comprendere che, secondo me, la felicità non è un istante ma resta dentro te e compensa il non-felice della vita.
Insomma la felicità non si esaurisce, non è vincolata all’attimo in cui essa si prova ma s’insinua nell’anima di chi sa conservarla.

Grazia Leone
Dire ‘sono felice’ non implica uno stato di esaltazione e di euforia permanente,  perderemmo la ragione in breve tempo   se così fosse.
So che scriverò cose scontate  ma la felicità può diventare  uno stato generale se fatto di tantissime piccole cose che messe tutte insieme ci fanno stare bene e  in pace con noi stessi. Guardare un tramonto, camminare a piedi nudi nell’erba, una cena con gli amici, una passeggiata nel bosco, un profumo che ci ricorda un bel momento passato,  fare una torta, il figlio che ci racconta una barzelletta, il grazie di un collega a cui abbiamo dato una mano, anche solo soffermarci su un  singolo pensiero che ci è passato per la mente in un determinato momento, sono infinite le piccole e apparentemente insignificanti cose che riempiono la vita e che fanno da  intermezzo agli affanni quotidiani.
Al di là delle inevitabili avversità che la sorte tiene in serbo per ciascuno, io penso che la felicità sia già dentro di noi, bisogna imparare a riconoscerla e a tirarla fuori, è un  compito arduo e può non bastare una vita intera per riuscirci ma bisogna almeno provarci.
Lo ammetto, oltre che scontato ciò che ho scritto è anche banale… cosa mi resta da dire? Che allora la felicità, quella autentica, è fatta di banalità.
C’è una poesia di Borges che mi piace, non so quanto sia in tema  ma mi fa pensare a tutte le cose che si possono fare prima che sia troppo tardi.

Istanti
Se io potessi vivere nuovamente la mia vita
nella prossima cercherei di commettere più errori.
Non tenterei di essere tanto perfetto, mi rilasserei di più
sarei più stolto di quello che sono stato,
in verità prenderei poche cose sul serio.
Correrei più rischi, viaggerei di più, scalerei più montagne,
contemplerei più tramonti e attraverserei più fiumi,
andrei in posti dove mai sono stato,
avrei più problemi reali e meno problemi immaginari.
Io sono stato una di quelle persone che vivono sensatamente,
producendo ogni minuto della vita.
E’ chiaro che ho avuto momenti di allegria,
ma se tornassi a vivere, cercherei di avere soltanto momenti buoni.
Perché di questo è fatta la vita,
solo di momenti da non perdere.
Io ero una di quelle persone che mai andavano da qualche
parte senza un termometro, una borsa d’acqua calda, un ombrello e un paracadute:
se tornassi a vivere, viaggerei più leggero.
Se io potessi tornare a vivere, comincerei ad andare scalzo
all’inizio della primavera
e continuerei così fino alla fine dell’autunno.
Girerei più volte nella mia strada, contemplerei più aurore
e giocherei di più con i bambini.
Se avessi un’altra volta la vita davanti…
Ma, vedete, ho ottantacinque anni e non ho un’altra possibilità.

Concetta Tigano
Felicità…è una gran bella ed impegnativa parola!!!
L’ho provata tante voltre , ed è sempre un colpo, un’emozione fortissima che ti lascia senza fiato, peccato che non sempre  dura….
Il primo bacio
Il primo amore (non sempre coincidono…:-))
Andare a studiare fuori casa
La laurea
Il primo stipendio
Un alunno che ti dice ” finalmente prof. ho capito!!”
Metter su casa con l’uomo che ami
La nascita dei figli ( la più grande!!)
…….facciamo un salto!!!!che è meglio!!!!!
Essere in grado di farcela
Sapere che l’intervento è riuscito
Emozionarsi ancora…ascoltando una “canzone”
Rivivere momenti che si credevano perduti
e…non ultimo far parte di una super-band come questa!!!!!!

Cinzia Massa

Mentre decido cosa scrivere, ecco una poesia di Totò, giusto per non vedere soltanto il lato bello della questione.

Felicità!
Vurria sapè ched’è chesta parola,
vurria sapè che vvo’ significà.
Sarà gnuranza ‘a mia, mancanza ‘e scola,
ma chi ll’ha ntiso maje annummenà.

Nando Santoro
Lo spunto di Rossella e Grazia (rimbalzato da Enzo e poi giù o su per li rami, fate voi) è assai interessante. E ho pensato subito alla Costituzione americana. Che è l’unica (credo) che mette il perseguimento della felicità fra gli obiettivi del popolo (We the people). Forse per i principi del giusnaturalismo ai quali i Padri costituenti si uniformavano. O per quella ingenuità di fondo che viene sempre riconosciuta come tratto principale degli yankee. O forse perchè a fondare gli Usa fu una miscela di popoli ed etnie scappate dalle persecuzioni politiche e religiose e dalle guerre del Vecchio Continente. O forse perchè la felicità è una delle poche cose concrete – ancorché indefinibili – che l’uomo può perseguire? a tutte queste opzioni, per ora, rispondo con un eloquente ed impegnativo “Boh?”. Ma non è detto che, speculando speculando, non riesca a tirare fuori qualcosa di buono. Hai visto mai…

Santina Verta
La felicità ..attimi estatici di stupore condiviso da un sorriso!
Per cui posso dire che esiste anche incosapevolmente!
Mica mi sorride il monte Rosa che riflette i raggi del primo sole… la carica di sorrisi rende quei momenti abbaglianti e molti visi distratti si lasciano attrarre dalla scia di colori!
Mi sorprendo di quanti granelli di felicità raccolgo nei bagliori che si ripetono con un ritmo frequente, fra albe e tramonti e lune di marmellata fanno un bel bignè!
Se vi trovate a passare..largo ai sorrisi!
E se , per caso, sentite qualcuno che urla…” correte ..salite… di corsa….” è per l’incontenibile contentezza di vedere stagliarsi all’orizzonte  Stromboli, magari fumante! ovviamente nell’altro lato del Rosa!
Oppure saltello in tumultuoso silenzio, quando una timida violetta si affaccia sui muri  intorno casa… attimi di felicità!

Daniele Riva
Ci sono certe mattine di martedì, quando sono a Milano, che mi capita di attraversare il Parco Sempione e uscire dal Castello Sforzesco dalla Porta del Filarete: fuori c’è la grande fontana che eleva al cielo i suoi getti; dietro il sole si leva sui palazzi ottocenteschi di Via Dante, dipingendo riflessi iridescenti sull’acqua. In quel momento io mi sento felice, senza un perché. Immotivata felicità e forse per questo ancora più apprezzata. Per il resto, io non credo alla costituzione americana che mette il diritto alla felicità tra i suoi requisiti fondamentali. Si può provare a essere felici ma niente e nessuno può garantire la felicità. La vita ha i suoi colpi, il destino sa essere crudele. Per questo ho raccontato quella mia “felicità di niente”, per non sembrare un cinico pessimista, cosa che non sono, come possono testimoniare anche i miei nuovi amici napoletani. Se Gesualdo Bufalino scrisse che “la felicità esiste, ne ho sentito parlare”, io posso dire che esiste perché so di averla provata, di provarla, anche se non può essere uno stato continuativo. Dobbiamo soltanto coglierla, quando si presenta, come un bel frutto dorato sull’albero dei giorni…

Antonella Romano

Io non credo che nella vita si possa essere felici in generale.
Si può essere più o meno soddisfatti della propria esistenza ma parlare di felicità secondo me è una questione più complessa.
La felicità per me è questione di attimi.
E’ euforia e gioia assoluta.
E l’unica cosa che possiamo fare è stare bene attenti a non guastare questi momenti e viverli intensamente distaccandoci da qualsiasi problema e preoccupazione.
Uno dei giorni più felici della mia vita fu il 26/02/2009, lo ricordo ancora, tensione mista a eccitazione e poi una sensazione di liberazione assoluta, in due parole, la tanto attesa LAUREA!
Ovviamente di momenti felici, per fortuna ce ne sono stati tanti altri ma, quel giorno lo ricordo soprattutto perché non ero sola, c’erano le persone più importanti della mia vita lì a gioire per un mio traguardo raggiunto. Insomma, un mix perfetto di liberazione/gioa/amore e per questo probabilmente rimarrà sempre un giorno indimenticabile, ma pur sempre una parentesi.
Più che di felicità credo che sia più giusto parlare di “pace”.
La pace non è questione di attimi ma può durare per anni se solo si è in grado di trovare un giusto equilibrio.
Io personalmente l’ho trovata per poco tempo ma è stata un’ottima lezione di vita. Complice un viaggio in Kenya e un modo di dire “pole pole”.
Pole pole vuol dire piano piano.
Sembrerà banale ma credo che sia questa la chiave di un’esistenza serena.
La ricerca di altri ritmi che più si addicono agli esseri umani.
Nessuno ricorda più come si viveva qualche decennio fa. Quando ancora non esisteva il traffico, le auto e i ritmi frenetici ai quali ci siamo, nel corso del tempo, abituati.
Quando è stata l’ultima volta in cui mi sono fermata? Non lo so, non lo ricordo. Corriamo sempre senza avere la minima cognizione di dove andiamo e a questo punto che senso ha vivere dei momenti di felicità se poi non li si ricorda?

Grazia Leone
La felicità non è solo un diritto ma anche e soprattutto un dovere.
Abbiamo il dovere di essere felici anche a costo di scappare. Io sono scappata, già adulta, decisa e con bene in testa cosa volevo. Volevo poter scegliere il mio futuro e dove vivevo prima non era possibile. Sono partita una mattina e per metà viaggio non sono stata in grado di dire una parola ma non ho versato neanche una lacrima. Dopo quasi quattordici ore sono arrivata a Monza, avevo con me solo le valigie con i vestiti e i miei libri, sono entrata nel mio monolocale, ho posato i bagagli e ho mormorato: ecco, ora comincia la mia vera vita.
Quanto è stata dura! Per mesi mi sono sentita sola e disperata, per farmi coraggio mi ripetevo come un mantra ‘ce la faccio sono forte, ce la faccio sono forte’ piangevo di notte o nella doccia, per non farmi vedere da nessuno.
Ci vogliono forza e coraggio per iniziare una nuova vita in un altro posto, bisogna essere disposti a contare solo sulle proprie forze, bisogna imparare ad avere fiducia in se stessi e a fare i conti con la nostalgia. Bisogna anche accettare a priori il fatto che una volta partiti si può non tornare.
Alla fine il mio mantra mi è stato utile, ho trovato quello che cercavo, o meglio, ho realizzato ciò che desideravo, me lo sono guadagnato. Oggi ho quasi paura a dire ‘sono felice’, lo dico sottovoce anche se tutto quello che sono e che ho lo devo unicamente a me stessa e alla mia determinazione.

Rossella Cacace
Ognuno ha la sua storia…ognuno il suo vissuto…ognuno i suoi perchè…
Io sono la Rossy di Tel Aviv, di cui Anto parlava nel suo commento…e sì, me ne sono andata 8 mesi fa. Potrei dire che sono andata via per molte ragioni: perchè stanca del mio Paese e della mia città, per amore, per un sogno…quello che però ho capito in questo periodo di tempo è che non c’è sempre un motivo REALE per il quale andiamo via. Non è solo per il lavoro, per l’amore o per altro. Si va via quando si trova la pace e la serenità altrove. Io sono partita con 500 euro in tasca. Avendo un appoggio certo, ma comunque con 500 euro, in un Paese di cui non conoscevo la lingua, nel quale non avevo un permesso di lavoro che ho ricevuto solo dopo 2 mesi. Eppure, anche nei momenti difficili, io ero felice! Ero felice solo di uscire e camminare in questa città! Ed è questo che ancora oggi, dopo 8 mesi di cui 5 di lavoro, mi stupisce ogni giorno: sono felice di fare tutto! Di prendere l’autobus, di fare la spesa, di sistemare casa MIA!!!Di uscire con i miei nuovi amici qui…E’ questo che conta!! Ricercare e raggiungere la propria felicità che deve essere INDIPENDENTE dal luogo o dal tipo di lavoro o dai soldi!! Non è quindi una norma uguale per tutti!!Non è una regola generale!Si resta se si è felici! Si va via se si è felici di farlo!Ecco perchè odio quando mi si dice che sono scappata! Che l’ho fatto perchè non avevo scelta! Non è vero! Ho fatto la mia scelta!! E la mia scelta è stata di essere felice! Ora sta voi! Fate la VOSTRA scelta!!

 

Uno, doje, tre e quattro e Antonio Gravina

Eccomi, sono emozionato mentre scrivo, perché è la prima volta, ho aspettato molto prima di farlo, ma volevo prima finire uno, doje, tre e quattro, per poter dire la mia, … sul libro intendo … e poi è solo una opinione … ecco, già parlo come loro quattro, che comunque sono contagiosi, sono belli, profondi e sinceri nelle cose che dicono (scrivono).
La mia recensione sarà comunque rivolta a delle persone che ho avuto il piacere di conoscere live, e che sono state ben descritte nelle loro conversazioni a quattro su FB prima e nel Libro poi…però …e non vuole essere una critica …ho notato in tutto il libro e in ognuno degli autori una certa vena pessimistica nell’ affrontare le questioni.   “sociali”, una sconfitta nella quotidianità delle Vite, che sembrano aver lasciato la speranza alla nostalgia…..mi sono emozionato e ho sorriso molte volte durante la lettura che ho fatto durare circa 20 giorni ( volutamente ….perché me lo volevo gustare un poco per volta…come si fa con un buon caffè).
Ho notato una Grande propensione alla Cultura, Tecnologia, Ricerca, Specializzazione, Arte …le magnifiche Poesie raccontate da Daniele, insomma Gran Classe..però @/amici miei più convinzione che non ci possiamo fermare davanti a niente, soprattutto quando c’ è un valore delle risorse così Alto come ho visto nelle persone che hanno scritto questo libro.
Io, per chi non mi conosce sono una persona che impara molto dalla lettura e mette in pratica i consigli che ne escono fuori. Voi mi  avete dato la spinta verso la Strada che sto percorrendo e oggi vado ancora più veloce e convinto,….complimenti per l’ idea, non vi fermate, non vi fate fermare e soprattutto vi consiglio un libro: uno, doje tre e quattro.

Chi parte sa da cosa fugge ma non sa che cosa cerca

L’idea me l’ha data Rosanna Pisani, come ho scritto qualche giorno fa una donna straordinariamente importante nella mia vita. Per due anni, dai 18 ai 20, il primo che fa i conti di quanti anni sono passati lo tengo scompagno, io sono stato il suo ragazzo e lei la mia, e sono stati due anni meravigliosi. Lei neanche lo sa, ma quando mi ha lasciato è stata la volta che ho pensato seriamente di morire, anche di voler morire, se chiamate Tonino Parola ve lo può confermare, non so quanti giri di Secondigliano ci siamo fatti con me che dicevo non ce la faccio ad andare avanti e con lui che mi diceva ce la fai, lascia che passi il tempo e ce la fai. Comunque me ne sono andato a Sociologia a Salerno, scelta che poi si è rivelata fondamentale nella mia vita, perché non ce la facevo più a vivere negli stessi posti dove avevo vissuto con lei. Spero che Rosanna non si dispiaccia che io scrivo queste cose, penso che dopo quasi 40 anni si può farlo con dolcezza, emozione, distacco, penso che il racconto non toglie e non aggiunge niente a ciò che è stato.
Insomma come vi ho detto l’ho cercata e ritrovata via Facebook, ci siamo scritti un pò di cose che naturalmente sono cose nostre, e oggi lei ha postato queste righe:
Napoli è la mia città natale, il luogo dove ho vissuto i primi 25 anni della mia vita. Poi ho deciso di andare altrove, a cercare nuove prospettive di vita, e così ho vissuto in diversi luoghi meno o più organizzati, dalla Sicilia alla Lombardia, più precisamente le isole eolie, salina in particolare, che amo molto e riconosco ancora oggi  come la mia casa, e la città di Brescia dove per 15 anni ho vissuto, lavorato e allevato i miei figli.
Dopo tanto tempo, sembra che in qualche modo Napoli mi richiami alle mie origini, cioè a riallacciare  il filo interrotto di  relazioni e connessioni con la sua vita e attraverso le persone che lavorano per la sua rinascita come il caro amico Vincenzo Moretti.  Un invito a partecipare, ed eccomi.

Qual’è l’idea è presto detto: chacchierare di cosa ci spinge ad andarcene e cosa ci spinge a tornare, non la storia dei viaggi dove il ritorno è per così dire nelle cose, la storia delle nostre vite in cerca di luoghi dove vivere e cercare sé stessi.

Niente, direi che possiamo cominciare, tanto la sapete che la frase del titolo è stata rubata a Montaigne da Lello Arena con conseguente figura di m. di Troisi.
Chi comincia per prima/o?

Uno, doje, tre e quattro e Mariagiovanna Ferrante

Uno, doje tre e quattro. Cominciamo, o, meglio, continuiamo a parlarne.
Perché ho comprato il libro? In tutta onestà, perché sono amica di Viviana e perché Vincenzo è simpatico assaje.
Ma quando ho iniziato a leggerlo, mi sono resa conto di aver fatto una cosa buona e giusta.
Mi è capitato, in passato, di recensire qualche libro in occasione di presentazioni promosse dalla Pro Loco cittadina. Una recensione comporta un’analisi della struttura testuale, dello stile, dei rapporti con opere dello stesso autore e via dicendo: un lavoro di tecnica, oltre che di interpretazione del messaggio veicolato dal testo, condotto un po’ “da fuori”.
Scrivendo di questo libro, invece, ho la sensazione di “essere dentro”, di inserirmi in una conversazione che è tuttora in corso.
Una bella conversazione iniziata da quattro persone, che hanno spalancato le loro vite a noi lettori, creando un flusso di energia multiforme e policroma e mettendola a nostra disposizione.
Uno, doje tre e quattro non è un romanzo, non è un saggio, non è un trattato. È una “torta” fatta di una serie di tranches de vie in cui non si può evitare, almeno una volta su quattro, di rispecchiarsi.
Daniele, Viviana, Vincenzo, Carmela, “sono” quattro punti di vista che si moltiplicano nei nostri punti di vista, da cui partiranno altri punti di vista. In un caleidoscopio di opinioni, così come accade nella piazza di Enakapata.
Le unità tematiche in cui si struttura il testo potrebbero tranquillamente essere lette “in ordine sparso”: da internet, ai problemi di Napoli, a quelli nazionali, passando per il senso della poesia. Come ogni conversazione che si rispetti, l’argomento di discussione può essere uno qualunque, e da un qualunque pretesto può partire per inanellarne altri. I nostri @mici potrebbero essere letti così, come ci viene, senza seguire necessariamente l’ordine progressivo delle pagine. Ogni volta, si apre una nuova finestra, con un nuovo link, in cui possiamo taggarci(sentendoci coinvolti), o possiamo limitarci a navigare, in un mondo che poi tanto virtuale non è.
E loro ci guidano nella navigazione, ognuno con il suo stile e con il proprio essere protagonista di questa avventura.
“Loro”, gli autori, non ci lasciano indifferenti. Neanche un po’.
Non ho potuto fare a meno di innamorarmi dello spirito di Daniele, poeta anche quando parla di munnezza.
Ho avuto conferma della grande personalità di Vincenzo, commovente nei suoi ritratti di famiglia, ma mai dimentico della sua innata ironia.
Carmela è sanguigna e passionale, e il suo temperamento traspare anche dalle virgole quando si racconta a proposito del mondo virtuale, o quando affronta la tematica legata al modno giovanile.
Viviana…attraverso la scrittura completa il quadro- già abbastanza chiaro- della sua indole giocosa, ma profonda. Ed è grandiosa nella sua abilità in fatto di tautogrammi.
Tutti e quattro vivono la scrittura come una straordinaria esperienza di trasmissione di sé e di crescita e lo sanno comunicare.
Facendo comprendere come sia possibile trasformare una piattaforma virtuale in un’esperienza di vita reale, concreta, in cui non ci si “tagga”, ma ci si tocca, fino ad abbracciarsi.
Così, alla fine della lettura, questi @mici diventano amici, e resta una gran voglia di continuare a parlare con loro.

Uno, doje, tre e quattro e Maria Silvestri

Quando qualche anno fa un amico mi inviò un sms dicendomi: “Sei su Facebook”, mi incazzai come una belva! No, non c’ero e non mi faceva piacere sapere di esserci.
Non avevo capito, dal momento che non vedevo un punto interrogativo, che la sua era una semplice domanda. Fino ad allora ero stata molto scettica e, diciamolo pure, un po’ prevenuta verso ogni forma di “socializzazione virtuale”, per intenderci non mi piacevano le persone “pc dipendenti”. Per me, allergica perfino alle segreterie telefoniche, era assolutamente impensabile avere un @mico o navigare in una chat. Eppure la curiosità di capire il successo e la popolarità di questo nuovo mondo era talmente grande da spingermi ad entrare nel “social network più in voga del momento”, fino a farmi ricredere …. (Toccare o Taggare questo era il vero problema!!!!!). Ed ecco che, nella piazza virtuale incontro Vincenzo, @mico di un mio @mico, ed Enakapata , che insieme agli altri @mici man mano arricchiscono il mio patrimonio di conoscenze in rete.
Ora voi mi direte: che c’azzecca tutto questo con il fatto se ti è piaciuto o non ti è piaciuto Uno, doje, tre e quattro?
C’azzecca, c’azzecca.
“Galeotto fu il libro e chi lo scrisse”, è proprio il caso di dirlo. Leggere le storie di questi quattro @mici che si raccontano nelle pagine di un blog, per me è stato come vedere il film della mia vita fino ad oggi. In tantissime occasioni mi sono ritrovata.
Anche a me è venuta la Nostalgia Canaglia, accompagnata anche dalla lacrimuccia, quando Vincenzo cita una frase del padre “è ’nguaiato tutta ‘a grammatica”, o quando Carmela dice “… ho cercato di colmare il vuoto lasciato dall’assenza con l’unico spazio che ho a disposizione: i ricordi”.
Sono andata Dove ti porta il Tifo insieme a Viviana cantando: ”Maradona è meglio ‘e Pele’, ci hanno fatto ‘o mazzo tanto pe’ ll’avè”. Che anno il 1987!, il Napoli vinceva il 1° scudetto ed io venivo a conoscenza di aspettare il mio 1° (ed unico) figlio.
Ho condiviso il suggerimento di Daniele “penso che sia un modello esportabile anche a Napoli” in Monnezza di un altro Mondo.
Insomma, a me Uno, doje, tre e quattro mi è piaciuto assaje, e non so se dire grazie al libro che mi ha permesso anche stringere la mano e guardare negli occhi Viviana, Carmela Vincenzo e Daniele o dire grazie a Viviana Carmela Vincenzo e Daniele che mi hanno appassionato con il loro libro.
Ah, dimenticavo: la mia copia è battezzata, comunicata e autografata personalmente dagli autori.

Uno, doje, tre e quattro e Grace

“Scrivo perchè io sono quello che scrivo e scrivo quello che sono”.
“Dite che se il libro è bello lo dovete decidere voi? Assolutamente vero. Ma solo dopo che lo abbiamo deciso noi, perchè un libro che non è bello prima di tutto per chi lo scrive è un libro senza speranze. Di più, non è neanche un libro, è carta stampata”.

Io, lettrice, ho deciso. Il libro è bello. Sono di parte lo ammetto, perchè Vincenzo e Daniele sono miei @mici di Facebook e non mi perdo una riga dei loro blog, ma che importa, non faccio recensioni di professione io, quindi scriverò quello che mi pare. Il libro mi piace. Punto.
Quattro persone si sono conosciute su un social network e hanno fatto un esperimento da cui viene fuori la passione semplice per la vita.
Passione semplice per la vita di quattro persone semplici e dirette, ecco cos’è Uno, doje, tre e quattro.
Carmela “la carnale”, non me ne vogliano gli altri tre moschettieri, ma è la mia preferita, non c’è pagina scritta da lei in cui non abbia ritrovato qualcosa di me.
Daniele “il nordico”, il poeta dall’animo gentile che connessione dopo connessione senza saperlo mi ha convinta a prestare più attenzione alla poesia.
Vincenzo “il leggero” e i suoi ricordi d’infanzia, il suo modo di porsi domande e darsi subito le risposte, da solo, quando e se le trova.
Viviana “la vivace”, con lei mi sono proprio divertita, da non perdere il suo tautogramma Poveri Piccioncini ovvero Romeo e Giulietta in P, pippipurrà!
Nessuno di loro dice cose veramente nuove, nessuno di loro fa grandi rivelazioni esistenziali, semplicemente si raccontano. Ed è impossibile non ritrovare in ciascuno di loro qualcosa che ci appartiene e che ci accomuna.
E’ un libro che tutti i web-scettici dovrebbero leggere, magari i detrattori della rete comincerebbero a pensare che fra chi passa un po’ del proprio tempo on line, c’è anche chi lo fa non perchè è sfigato, frustrato e insoddisfatto della propria vita, ma perchè la propria vita vuole arricchirla e che una volta spento il pc si ritrova con un bagaglio di esperienze ben più vasto e una visione del mondo ben più “reale” di quanto si possa immaginare.
Se poi qualcuno si chiede come sia possibile allacciare rapporti umani con persone così distanti e irreali la risposta la fornisce Daniele: “Non siamo noi stessi i nostri pensieri? Non siamo anime che si sfiorano? Si d’accordo, guardarsi, sfiorarsi, toccarsi, stringersi le mani, darsi una pacca sulla spalla sono cose che non si possono fare attraveso il computer.
Ma le anime … quelle si che si abbracciano.

Venga a prendere uno, doje, tre e quattro caffé da noi

Adesso non dite che non dobbiamo vederci più per festeggiare un compleanno anche se la bella pensata l’abbiamo fatta proprio settimana scorsa quando ci siamo incontrati per festeggiare Viviana.
Dato che le colpe dei presenti non possono ricadere sugli assenti dico subito che eravamo Viviana, Francesco, Cinzia and me e aggiungo subito dopo che a un certo punto la conversazione è finita su Uno, doje, tre e quattro, a voler essere precisi il titolo delle chiachciere è diventato “come possiamo fare per far conoscere il libro, farlo leggere, ergo comprarlo”.
Ora, anche se lo so che non ce n’è bisogno, voglio precisare che questa “ossessione” di vendere il libro ci viene innanzitutto dalla voglia di far conoscere il nostro lavoro, di comunicare le nostre emozioni e riflessioni, di far girare le nostre piccole grandi idee, di incontrare vecchi e nuovi amici, e poi anche almeno un pò dalla voglia di ripagare la fiducia e l’investimento da parte dell’editore, che insomma la nostra “ossessione” non ha davvero niente a che fare con il verbo “guadagnare”.
Fatta la precisazione, aggiungo che a un certo punto, non ricordo davvero né come e né perché, è venuta fuori l’idea delle presentazioni in salotto, sì, proprio il salotto di casa vostra, una cosa tipo “venga a prendere il caffé da noi” che ci sono anche i nostri amici autori di Uno, doje, tre e quattro che vengono a presentare il loro libro.
Cosa dov(r)e(s)te fare per organizzare una cosa del genere è presto detto:
1. avere il piacere di passare un pomeriggio con noi (se  assieme al caffé c’è anche qualche pasticcino siamo contenti noi e sono contenti i vostri amici, ma anche  se c’è solo il caffé noi veniamo lo stesso);
2. avere casa in un raggio massimo di 100 km da Napoli, roba che per la sera possiamo tornarcene a dormire alle nostre, di case, che stiamo più comodi e non spendiamo soldi;
3. avere 10-12 amici (naturalmente se c’è qualcuno di più è anche meglio) disposti a partecipare alla conversazione.
I libri li portiamo noi, naturalmente  senza alcun obbligo di comprarli da parte di alcuni. Lo vogliamo dire che confidiamo sulla nsotra sperimentata capacità di presentatori, e diciamolo. E aggiungiamo anche che chi lo compra oltre alla dedica e alla firma “live” di Viviana, Carmela and me avrà anche quella “in differita” di Daniele, che oltre a presidiare la parte nordica dell’Italia parteciperà,  si vedrà  se e come di volta in volta, grazie alle ampie possibilità offerte dai nuovi media digitali.
That’s all, folks. I mezzi per commentare, proporre, far girare, prenotare e tutti gli altri “are” che volete non ci mancano.  Siete dispensati dagli insulti. Il presente post vale anche come ringraziamento.

Uno, doje, tre e quattro e Adele Gagliardi

Partiamo dal fatto che per me i libri non possono essere brutti, forse perchè non ho mai saputo scrivere neanche un biglietto di auguri e quindi tutto ciò che è scritto per me vale, fosse anche il biglietto del tram.
Uno, doje tre e quattro è stato bello perchè scritto da amici.
Perchè tranne il primo ed ultimo capitolo,gli altri li potevi leggere nell’ordine che preferivi, ed infatti “viaggiatori immobili” l’ho letto in una condizione bellissima,in barca cullata dalle onde ed ho potuto viaggiare con tutti voi, ho visitato attraverso le parole paesi che non avrei voluto vedere e mi sono riempita delle vostre emozioni.
Perchè la cosa che più ho apprezzato sono stati gli scritti di Viviana e Carmela, meno male che c’erano loro tra Enzo e Daniele, altrimenti sarebbe stata dura la lettura, infatti è stato piacevole trovarle dopo gli scritti maschili un poco troppo pressanti (per me s’intende), per questo motivo ho trovato il libro molto ben bilanciato e molto piacevole.
Perchè è in un formato da tenere sempre nello zaino e poter leggere durante le attese dal medico piuttosto che aspettando l’uscita da scuola di mia figlia.
Perchè vi voglio bene e apprezzo il vostro lavoro.

SottolinEliasCanetti

Non gli chiederò perdono. Anche perché non me lo concederebbe. E farebbe bene. Perché Lui è (era solo per la storia, non certo per la cultura) Elias Canetti. Ha vinto il Nobel 40 anni dopo aver scritto il suo romanzo, Auto da fé.  Ha impiegato 30 anni per scrivere Masse e potere. E Lui non starebbe certamente a perdere tempo con queste cose così sfacciatamente attuali.
Però lo facico lo stesso. Metto questo titolo assurdo per sottolineare il legame con Sottolineato di Adrian Parracciani. E metto la citazione che secondo me merita di essere commentata.
La citazione è questa, tratta da La provincia dell’uomo (pag. 207):

Quante volte bisogna dire ciò che si è, prima di diventarlo veramente?

Commentiamo gente, commentiamo.

Uno, doje, tre e quattro e Romina Pericotti

Con la nostra piccola Alice, di appena due mesi, non abbiamo molto tempo da dedicare alla lettura …
La curiosità, tuttavia, era tanta, così come l’emozione di sapere che, finalmente, il talento di Carmela sarebbe venuto fuori!
E’ un libro capace di arrivare al cuore di chiunque, a tratti comico a tratti commovente! Interessante riguardo tutti gli argomenti trattati ed estremamente intenso quando vengono fuori le più profonde emozioni di ognuno!
Apettiamo il prossimo con ansia … Complimenti a Vincenzo, Viviana e Daniele ma soprattutto a Carmela.

Un amore per amico

Come si è sviluppata ieri sera la discussione lo potete leggere nel commento qua sotto.
Qui provo a spiegarmi meglio, l’ho “minacciato” e lo faccio, magari è solo una mia fissazione e magari no, però vorrei che evitassimo i luoghi comuni. Chi ne vuole discutere, deve stare sul punto. Il mio punto lo schematizzo così:

1. sono pochi, ci abbiamo messo anni e in alcuni casi decenni, ma oggi ho amici con i quali “non devo mai dire mi dispiace”. Per fare qualche esempio se arrivo tardi a un appuntamento mi dicono “non c’è problema, se sei arrivato adesso vuol dire che non potevi arrivare prima”; se non li sento per settimane, talvolta mesi, una volta anni, non devo spiegare perchè, neanche se e quando li chiamo perché ho bisogno del loro aiuto; quando stiamo assieme posso parlare per ore o posso stare modello “cadavere” che mi sento a mio agio, non “devo” pensare, fare, dimostrare, niente. Ovviamente tutto questo è reciproco, nel senso che funziona così in tutte e due le direzioni, che funziona  così quando stiamo  assieme una giornata, per esempio a Procida, o un mese, per esempio a Sydney.

2. con le donne di cui mi sono innamorato non mi è mai riuscito,  c’è sempre qualcosa, piccola o grande che sia, da chiarire, da giustificare, da approfondire, da fare, da puntualizzare, bisogna sempre stare sul punto, lei si deve sentire sempre la più importante (prima che vi scateniate preciso che la donna che amo “è” sempre la più importante, e di mio senza falsa modestia sono uno a cui piace un sacco farglielo capire, in mille modi) e tutto questo ad un certo punto diventa un peso, che più vado avanti negli anni e più non sopporto.

3. se la vostra risposta al tema è che sono io ad essere sprucido, intollerante, esagerato, insopportabile e così via discorrendo vi dico che io non sono per niente convinto e che  voi vi perdete una possibilità di (ri)pensare in maniera non banale a quanto accade  nei rapporti tra mogli e mariti, fidanzate/i, compagne/i.

4. Amare vuol dire non dovere mai dire mi dispiace è un modo dire che avevo sempre odiato, così come il film Love story. Poi un giorno, a Casperia (Ri), mentre guardavo un albero come non lo avevo mai guardato … ma adesso è meglio che mi fermo che con questa storia dell’albero già sono stato torturato abbastanza :-).

Buona discussione.

Cento di questi giorni come il tuo cuore desidera

Vogliamo cominciare dalla circostanza? Va bene, cominciamo pure da lì, era il 29 dicembre 1962 e al tempo abitavamo a Via Cupa dell’Arco, nella stanza all inclusive con angolo cottura, che vedete come fa chic ma in realtà significa che in quella stanza ci dormivamo papà, mamma, io e Antonio, naturalmente ci mangiavamo, ovviamente mamma ci cucinava, e nell’angolo c’era un micro bagno perché a includere anche quello nell’all sarebbe stato troppo anche per noi. La nostra bella casa ormai la dovreste conoscere, è quella nella quale facemmo la danza con i soldi della liquidazione di papà di cui ho scritto in Enakapata, la stessa nella quale io e Antonio ci precipitavamo sul ballatoio ad abbracciare papà quando tornava dal lavoro, e questo invece ve l’ho raccontato in Uno, doje, tre e quattro, che se non li avete ancora letti non sapete cosa vi siete persi ma fate ancora in tempo a rimediare. Quello che forse non vi ho ancora detto è che la casa suddetta aveva un bel balcone che usavamo nell’ordine per asciugare i panni, per vedere a scrocco, spesso assieme agli amici, le partite del A. S. Secondigliano, che giocava in promozione, e per sparare i tric trac e i biancali a Natale che un anno mi sono fatto anche un poco male ma questo ve lo racconto un’altra volta.

Io e Antonio eravamo amici dei figli del custode del campo e anche dei due scalcinati mastini napoletani che avrebbero dovuto fare da deterrente per i ladri, cosa ci fosse poi da rubare non è che l’ho mai capito, e quel famoso pomeriggio stavamo per l’appunto facendo un’improbabile partita, eravamo in tutto 5 o 6 in quel campo che ci pareva sterminato, quando qualcuno ci venne a chiamare, non ricordo davvero chi, per dire di correre a casa perché era nato il nostro fratellino.
Ora al tempo né io e né Antonio potevamo saperlo, ma il fatto che fosse un fratellino e non una sorellina voleva dire che prima o dopo ne sarebbe arrivato un altro,  che per fortuna dopo arrivò Nunzia perché papà non si sarebbe mica fermato se non fosse arrivata la femminuccia sua, il tutto con grande gioia di mia madre (non so se si coglie l’ironia, ma c’è, mamma se avesse potuto anche solo pensarlo lo avrebbe letteralmente ammazzato a papà per questo fatto, che lei a due già si sarebbe fermata anche se poi naturalmente ‘e figlie so figlie, tutti, e anzi Gaetanuccio è diventato anche il preferito della mamma sua anche se ancora oggi non lo vuole ammettere).

Insomma io me la ricordo ancora l’emozione di vedere il fratellino appena nato, era la mia prima volta dato che quando era nato Antonio non avevo ancora due anni e dunque cosa ti vuoi ricordare. Bellissimo.

A proposito di Gaetano, anche il nome è stato un problema, perché non piaceva a nessuno, né a me né a mamma e forse neanche a papà (di Antonio non so dire, glielo chiederò e vi faccio sapere).
A mamma non piaceva perché lei finita la fase del “refrisco”, io mi chiamo Vincenzo come il nonno paterno, mio fratello Antonio come il nonno materno, avrebbe voluto finalmente scegliere un nome non obbligatorio, che ne so, un nome tipo Marco ad esempio; a me non piaceva per la maledetta mania di associare i nomi ai soprannomi o agli sfottò e al tempo andava per la maggiore “Aitano, scorza ‘e patane, auna ‘e perucchie e s’è mangia cu ‘o ppane (Gaetano, buccia di papata, raccoglie i pidocchi e li mangia col pane)” che capite da soli quanto mi facesse schifo.
Perché allora papà decise (sì, anche questo l’ho già racocntato, ma per i renitenti alla lettura ripeto che da noi non era prevista la discussione, decideva tutto lui) che si dovesse chiamare Gaetano? Perché a un certo punto arrivò la sua nutrice, lui era stato l’ultimo di 17 figli, in gran parte morti prematuramente, e sua madre non avendo più latte l’aveva fatto allattare da una nutrice che noi chiamavano nonna e lui “mammà zezzella” (io lo trovo meraviglioso, e voi?), e si ricordò che un fratello di papà morto giovane si chiamava Gaetano e dunque mio fratello doveva chiamarsi così. E così fu.
Vabbé, poi naturalmente da allora sono successe tante altre cose, ma io un post devo scrivere non un libro che di quelli ce ne stanno già troppi in giro. Vi dirò soltanto che tra alti e bassi come succede in tutti i rapporti veri, perché non basta mica essere fratelli per andare sempre daccordo, non sarebbe neanche tanto bello così, che gusto ci sarebbe, continuiamo a volerci un bene da pazzi e oggi sono veramente felice felice di stare assieme a lui. Punto. Anzi no. Te voglio bene Gaetà. E ti faccio gli auguri come te li avrebbe fatti papà:
Tanti auguri per cento di questi giorni come il tuo cuore desidera.
Adesso è davvero tutto. Ci vediamo tra poco.

Il coraggio di Angela

Non so quante volte l’ho scritto e poi l’ho buttato questo post da quando ho letto le poche righe con le quali Adriano faceva riferimento al dolore di Angela. Con lei ci eravamo scritti qualche giorno prima per una di quelle questioni futili eppure indispensabili che ci riempiono la vita, e quelle parole di Adriano mi erano sembrate così fuori posto che ho avuto bisogno di controllare che si trattava della stessa Angela prima di rimanere così, impietrito, letteralmente, senza parole. Giuro che ci ho provato a pensare a un messaggio, a qualche parola di conforto, a una citazione che desse il senso di un dolore condiviso, ma non ne sono stato capace.
Non mi capita sempre, sono uno di quei tipi assurdi che anche nelle situazioni più dolorose soffre, perchè sono le volte che si soffre, e tanto, ma pensa anche che ogni giorno muoiono troppi bambini di fame perché lui abbia il diritto di domandarsi “perchè è capitato proprio a me”. Fanno eccezione i figli, non c’è retorica  e neppure ragione in tutto questo, perchè anche i bambini che muoino di fame sono figli, ma io lo trovo un dolore troppo disumano, indefinibile, innominabile, insopportabile.
Ho capito veramente cosa voleva dire Borges scrivendo che “le cose le puoi davvero condividere solo se le hai vissute” quando ho visto il mio più grande amico che piangeva, lui che pensavo invincibile, e  diceva che no, non gli dovevano dire che capivano il suo dolore, perché se non lo hai perso, un figlio, non lo puoi comprendere cosa vuol dire.
E’ per questo che ho scritto e poi ho cancellato così tante volte.
Perchè adesso invece no? Perchè oggi mi ha telefonato Santina, mi ha detto che ha parlato con Angela, che l’aveva sentita reattiva, che si sono messe daccordo che al ritorno dalla Calabria sarebbe andata a trovarla a Torino. Perchè sulla bacheca di Facebook di Angela stasera, in questi giorni ci passo spesso per leggere, pensarla, sentirla vicino, commuovermi, ho trovato questo: Tutti quelli che se ne vanno ti lasciano sempre addosso un po’ di sé… È questo il segreto della memoria? Se è così allora mi sento più sicura perché so… che non sarò mai sola… (dal film “La finestra di fronte”). Ciano, Angela, Stefano ringraziano tutti. E perchè qui non sto scrivendo del dolore di Angela, che per quello mi mancano ancora le parole e il coraggio, sto scrivendo della sua forza, dell’ammirazione sincera che provo per lei, della speranza di poterla incontrare presto e  fare un pò di chiacchiere come si fa tra amici veri. Sì, penso anch’io che persone così non saranno mai sole. Di più, ne sono sicuro. Abbiamo troppo bisogno di loro.

Pensavo fosse un tango

di Mariagiovanna Ferrante

Mi aveva telefonato, proprio due giorni fa.
All’inizio, leggere  il suo nome sul display mi aveva turbato: erano mesi che non ci sentivamo e quella chiamata inaspettata destabilizzava il mio equilibrio, così faticosamente conquistato e comunque poco stabile.Quando ho risposto, non ha perso tempo in frasi di circostanza: mi ha invitato a cena, a casa sua. Aveva voglia di parlarmi.La nostra storia era iniziata tre anni prima: ci eravamo incontrati in una milonga– uno di quei posti dove si balla il tango- e ci eravamo riconosciuti al primo sguardo. Eh sì, perché tra principianti ci si riconosce…

Il principiante in genere fa “tappezzeria”: è ancora insicuro, ha soggezione dei “bravi” e non vorrebbe mai sentirsi esposto al ludibrio dei maghi del boleo. Si vedeva che entrambi vivevamo la stessa sindrome: i nostri occhi cadevano sui piedi dei ballerini in pista, avidi di apprendere i segreti di quella danza così affascinante ma così piena di segreti, per noi che non osavamo staccare le spalle dalle protettive pareti del locale.Quando decidemmo di concedere una pausa al nostro studio, e di guardarci intorno, ci vedemmo.Proprio allora capimmo che non ci saremmo sentiti in difficoltà, se avessimo provato a mettere in pratica quanto appreso fino a quel momento.

Quella sera ballammo il nostro primo tango insieme. Seppi che si intitolava Oblivion, noto fra i tangueri: un pezzo struggente, sensuale, sulle cui note i nostri passi, per quanto incerti, sembrarono subito guidati da una forza irresistibile.

Immediata sincronia nel respiro. Perfetto incastro di corpi. Percepii nettamente il battito del suo cuore, che sembrava appoggiato al mio.
Mani, piedi, gambe, visi. Intorno il mondo girava. Noi eravamo lì, in una terra senza nome dove contava solo la nostra presenza. Dove il tempo pulsava.
Un sogno durato tre, forse quattro minuti, che avrei voluto protrarre all’infinito.

La fine del pezzo fu per noi il risveglio, e la realtà. Una realtà in cui ora esistevano due anime e due corpi, nel cui destino era l’inizio di un cammino lungo il medesimo tratto di strada.
Dopo quel primo incontro, seguirono settimane in cui la serata in milonga era un evento: secondo un tacito appuntamento, ci trovavamo nei locali che frequentavano i nostri compagni di corso e non perdevamo nessuna occasione di contatto. E ogni volta la magia di quel primo tango si ripeteva.

L’esigenza di rivederci divenne sempre più urgente e così ci scambiammo i numeri di telefono.
Così iniziò la nostra storia.
Il solo parlare di noi, della nostra vita, rendeva più forte la sensazione che stessimo vivendo qualcosa di speciale. Ci rendeva ancora più uniti quella crescente passione per il tango, che ci incuriosiva e ci portava in giro per l’Italia e in Europa a conoscere nuovi modi di interpretare i messaggi della danza. Non avevamo nessuna ambizione. Cioè: nessuno di noi aveva la benché minima intenzione di partecipare ai campionati o di diventare insegnante di tango. Ci stavamo amando e anche in quel modo consolidavamo il nostro crescere insieme.
Anche quando facevamo l’amore, sentivamo lo stesso: il corpo era il veicolo di una danza interiore, che si manifestava in gesti istintivi, improvvisati. Un tango, anche quello.

Dopo un anno e mezzo, l’inaspettato. Il bolero.
Una relazione clandestina, con qualcuno che aveva già una sua storia, e dei figli.  Il tango cedeva il passo a qualcosa di più turbolento, di più…violento, e io mi dovetti piegare alla necessità dell’abbandono. Tornò il vuoto e tornò il silenzio, intorno a me.
Per diverso tempo, ho vissuto come se fossi in una stanza piena di ovatta, muovendomi come alla ricerca di un oggetto prezioso irrimediabilmente smarrito. Poi, lentamente, ho ripreso il mio cammino solitario e da allora la mia vita non è cambiata.
Sveglia al mattino presto, ufficio, qualche happy hour, qualche film. Nessuna relazione.

Il tango? Non più.
Almeno fino a ieri.
Quando ho bussato al campanello di casa sua, i pensieri che avevano accompagnato lo squillo del telefono erano ancora lì. Sapevo, però, che nel corso della serata avrei avuto tutte le risposte che cercavo.
È venuta ad aprire quasi subito. Era bellissima: l’abito rosso che indossava si appoggiava sui fianchi e ondeggiava ad ogni suo movimento. Mi sembrava più pallida del solito, ma non ho voluto dirle niente, pensando piuttosto che fosse stanca.
Ovviamente conosco casa sua, e l’ho seguita con sicurezza in cucina. Non aveva ancora apparecchiato la tavola, ma aveva già bevuto. Del vino rosso. “Non bere da quel bicchiere, eh? È solo mio!”, mi ha detto, con un sorriso. Le ho risposto che mai e poi mai avrei osato contraddirla.

Le ho dato una mano a disporre piatti e bicchieri, riscoprendo, nella consuetudine di quei gesti, un’intimità che credo di non aver mai dimenticato.Devo ammettere di ricordare ben poco della cena, in sé. Abbiamo mangiato delle fette di arrosto, forse di maiale, e delle patate, forse al rosmarino. E abbiamo bevuto. O meglio: io ho bevuto, perché ho riempito il mio calice almeno un paio di volte. Lei, invece, avvicinava le labbra al suo bicchiere con lentezza, come se volesse rimandare il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto riempirlo.

Mi ha raccontato la sua vita negli ultimi mesi. Lui, quello sposato, quello per cui mi aveva lasciato, era tornato dalla moglie. Anzi, non l’aveva mai lasciata. Eppure, sentiva di non odiarlo, perché era stato, per lei, un completamento. Prima che io potessi farle qualunque domanda, mi ha detto che non ero io quello incompleto, rispetto all’altro. Lo era lei. Da me aveva ricevuto il calore che aveva risvegliato il suo desiderio di amare. Un desiderio sopito da tempo, che lei aveva cercato di colmare con storie di letto prive di sostanza. Prive di amore. Ero arrivato io e l’avevo portata sul “tappeto volante”. Così amava chiamare quella sensazione di leggerezza e di benessere che solo un amore può regalare e mi diceva spesso che era bello guidare il tappeto in due, ma era altrettanto bello lasciarsi guidare, affidarsi. E lei si era affidata a me.
Ma l’altro l’aveva sconvolta, e l’aveva portata lungo le rapide di un fiume senza diga.

Impossibile frenare l’impeto della passione. I tamburi del bolero contro il bandoneòn del tango. Adesso sentiva un gran senso di vuoto, come se qualcuno, o qualcosa, avesse estirpato dalle sue budella tutto il bello di cui si era riempita negli ultimi anni.
Cosa ci facevo io lì? Aveva voglia di ballare con me.
Ha sorseggiato il suo rosso, fino a vuotare il bicchiere. Con la stessa lentezza misurata, si è alzata e ha acceso lo stereo. Si è avvicinata a me e mi ha teso la mano, facendomi alzare. Quando ci siamo trovati uno di fronte all’altra, ha chiuso gli occhi, nello stesso momento in cui partiva il “nostro” tango, Oblivion. L’ho stretta nell’abbraccio che ci era familiare, riconoscendo la morbidezza del suo corpo, il profumo dei suoi capelli, il battito del suo cuore. Era ancora lei, presente con la sua prepotente dolcezza. Non ho sentito il bisogno di virtuosismi: eravamo lì, nella nostra non-dimensione, nel nostro ritrovarci. No, non c’era nessun vuoto in lei, lo sentivo. Quello di cui aveva bisogno era ricominciare a sentire se stessa, come avevo fatto io quando se n’era andata. Quelle note…erano la nostra storia.

Avrei voluto abbandonarmi al pianto che non mi ero mai concesso, ma non era quello il momento. Quel tango ci stava dicendo che due corpi mettono in comunicazione due anime ed entrambi-lo sentivo-potevamo ricominciare a camminare. Insieme.
Dopo un paio di minuti, però, ho sentito che qualcosa in lei stava cambiando. La sentivo meno leggera, quasi affaticata. Il suo cuore ha iniziato a seguire un ritmo diverso dal solito.
Le ho chiesto cosa avesse.
“Va tutto bene, stai tranquillo”.
Ma mi ha mentito.
Sono sicuro di aver urlato il suo nome, quando il suo corpo si è abbandonato sul mio.
Signor Commissario, aveva deciso di morire tra le mie braccia.
Pensavo fosse un tango. Era il suo addio.

Uno, doje, tre e quattro e Maria Paraggio

Caro professore ho letto il libro e ne sono rimasta entusiasta. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata quello di paragonare il vostro libro ai sonetti di corrispondenza che i poeti del Dolce Stil Novo si scambiavano, esprimendo la loro concordia spirituale. Mi è sembrato di vedere tutti e quattro voi autori sulla navicella descritta da Dante nel suo celebre sonetto:

“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ‘l disio. …”

Una concordia di intenti nel talento che genera il desiderio di incontrarsi, con la possibilità di scambiare idee, conoscenze, sensazioni, emozioni. Ognuno con il suo carico di esperienze, ricordi, passioni ma nella consapevolezza di far parte di una comunità nuova, non legata più ad un territorio ma al mondo intero, grazie ad internet. E’ come se ci fosse un cerchio magico che vi lega insieme provocando una suggestione unica e, credo, generando in chi ancora non si è accostato alle grandi potenzialità di internet, di cominciare il proprio viaggio nella rete e di trovare amici virtuali ma leali e reali come voi vi proponete.
Grazie a voi tutti per questa bell’immagine di un mondo dai più visto come dannoso.

Eravamo quattro amici al blog

di Rosaria Della Ventura

Se nella canzone di Gino Paoli si voleva cambiare il mondo seduti al bar tra un caffè e una coca-cola, parlando di anarchia, libertà e quant’altro, Viviana, Vincenzo, Daniele e Carmela non hanno assolutamente questa pretesa, seduti al blog di ENAKAPATA. Se non quella speranza di scalfire un modo di vedere le cose  fatto di luoghi comuni, di facili e gratuiti cinismi.

Metti poi che qualcuno tra di loro non ha mai incontrato personalmente gli altri tre e che tre di loro sono di Napoli e provincia, mentre un altro di Lecco. Loro non sono “Quattro”, sono “Uno, doje, tre e quattro”, e si incontrano sul blog per raccontare e raccontarsi, leggere e leggersi, ascoltare e ascoltarsi, ognuno con il suo bagaglio di esperienze, considerazioni, idee, emozioni, tenuto stretto tra le dita che scorrono sulla tastiera del computer.

“Un intreccio che risplenderà delle differenze (età, politica, studi, concezione religiosa, collocazione geografica ecc..)” così scrive Daniele Riva accogliendo la proposta di Vincenzo Moretti, all’inizio dell’avventura, e così chiude nel resoconto alla fine dell’ epistolario virtuale, divenuto un i-book, un interactive book.

Mentre leggi cosa dice Vincenzo, ti chiedi cosa risponderà Daniele, immagini cosa scriverà Viviana, ti sorprende cosa dice Carmela. Dice. È un libro che dice, che scava in ricordi personali fatti di cenoni natalizi e “lotte coi capitoni”, che racconta delle proprie radici, della passione per il calcio, del problema perché solo a Napoli l’immondizia è un problema che fa voltare e rivoltare i cittadini, della bellezza del viaggio, della fuga dei cervelli, della precarietà del lavoro, dell’incapacità dell’Italia di trasformare i giovani in risorsa sociale. Questo e tanto altro, in un prosa diretta, senza intoppi retorici. Questo e tanto altro disposto in un crescendo di confidenzialità e compartecipazione che si avvertono nel susseguirsi degli interventi. Dal racconto alla confessione, con lo stesso calore, con la stessa schiettezza di parole appena sfornate da discussioni dinanzi un camino, su un comodo divano.

Il filo che collega la fitta varietà di tematiche del libro è evidente: il piacere di scrivere, di confrontarsi, di scambiarsi impressioni, di chiacchierare, del sano inciucio. Il tutto su pagine di un blog. E il proposito credo (oserei anche sfida) sia proprio quello di evidenziare e ricordare le enormi possibilità e la potenzialità della rete, dei blog, come luoghi sinergici di idee, dove a condividere non ci sono solo foto, dove si può essere @mici e diventare amici, dove ci si può “toccare” oltre che taggare. Possibilità resa tangibile proprio attraverso la pubblicazione del libro.

Si, è vero. Nulla potrebbe sostituirsi a una bella chiacchierata, come dire, “in carne e ossa”, e che a volte si ha l’impressione (magari per menti più tradizionaliste) che il linguaggio e la terminologia virtuale abbiano attinto un po’ troppo dal linguaggio “umano, familiare”, passando da “Aggiungi ai contatti” di MSN a “Aggiungi agli amici” di Facebook. Punto primo, ogni tanto ci vuole qualcuno che ci ricorda che web non è solo Facebook, ma un mondo che, se usato bene diviene una risorsa. Si sa, in tutte le cose ci sono pro e contro, basta non fossilizzarsi sui contro e tentare di essere artefici di nuovi pro! Punto secondo: ben venga che un blog possa sentirsi piazza, se piazza vengono chiamati luoghi asettici in centri commerciali, con tavolini in plastica e finte fontane frequentate da famiglie con generazioni al completo, quando fuori c’è il sole.

Insomma, una festa a sorpresa alla scrittura, attraverso una riflessione meta-virtuale.

I quattro amici sono rimasti assieme al blog fino alla fine, “sono passati dal bere coca-cola al bere vino e poi whisky”, dal parlare di calcio a parlare della gioia di scrivere.  Ed ora sono ancora di più … uno, doje, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci….

 

 

Uno, doje, tre e quattro e Stefania Bertelli

Un inno alla contemporaneità “Uno, doje, tre e quattro”: un racconto polifonico di storie individuali. Un linguaggio nuovo, che si è avvalso di strumenti di comunicazione attuali, ma che rimanda a emozioni antiche, tradizionali. Mi è piaciuto il libro, perché riflette la cultura del presente, senza indulgere a falsi modernismi. Gli autori narrano di se stessi, della loro vita, delle loro impressioni, delle loro paure, delle loro emozioni, senza tediare, anzi legandoti al testo, per permetterti di confrontare le tue esperienze con le loro. Una scrittura sincera per una lettura appagante.

Uno, doje, tre e quatto ‘a Natale me l’accatto

Si gioca da stasera a domenica sera.
Scopo del gioco è trovare lo slogan per lanciare la campagna natalizia per Uno, doje, tre e quattro.
Si vince una copia del libro autografata (sì, siamo stati previdenti, ne abbiamo alcune firmate quando Daniele è venuto a Napoli :-)))
Sono ammessi tutti i dialetti oltre naturalmente alla lingua italiana.
Noi autori possiamo giocare ma naturalmente non partecipiamo alla gara, anche perché siamo i giudici :-)))
Il mio è quello che ho pubblicato sulla pagina di Facebook.
Pronti? Via!

Uno, doje, tre e quatto | ‘A Natale me l’accatto
Quatto, cinche, sei e sette | N’ato ‘o metto dint’a cazetta
vincenzo moretti


L’incantesimo del motore

di Giancarlo Iorio
Questo racconto è ambientato a Morrone del Sannio, nel Molise, in un periodo in cui la meccanizzazione cominciava ad affermarsi in agricoltura, con una certa difficoltà di adattamento, per persone, volenterose, ma del tutto digiune di tecnologia. 

Quando mio nonno aggiustava il trattore indossava un pantalone ampio, di tessuto jeans, con una pettorina mantenuta da due bretelle incrociate sul dorso e sotto una camicia di fustagno a quadroni con le maniche rimboccate.
In casa questo indumento era conosciuto come panzuork.
L’aveva portato dall’America, da Seattle per la precisione, dove era stato a lavorare come minatore.
Succedeva circa trenta giorni prima della stagione della trebbiatura, che, al mattino presto, lo si poteva vedere indaffarato, con indosso il panzuork.
Per mesi il Field Marshal gommato era stato fermo. Aggiustarlo significava semplicemente rimetterlo in moto.
Operazione complessa in un trattore della metà degli anni ‘50. L’accensione prevedeva, una serie di operazioni, tra cui ovviamente il rifornimento di nafta, che veniva prelevata da grandi fusti cilindrici di colore verde chiaro. Erano quelle le prime occasioni in cui vedevo applicata in pratica la proprietà fisica dei vasi comunicanti.
Nonno Carlo infilava nel fusto grande un tubo di gomma, avvicinava l’estremità libera del tubo al recipiente di destinazione del carburante, si chinava e aspirava col fiato la nafta, poi, precipitosamente, infilava il tubo col carburante in uscita nella tanica rettangolare di metallo da 20 litri.
Molto spesso ne assaggiava un po’, suo malgrado, oppure il carburante gli colava sulle scarpe e poi mia madre a tavola si chiedeva: “Da dove viene questa puzza di nafta?”, e si alzava in preda ai conati di vomito.
Il gommato era di un bel colore verde scuro, aveva delle ruote posteriori enormi, dal profilo a spina di pesce molto scolpito.
I soci lo chiamavano “il motore” perché era destinato ad una funzione statica cioè a far girare il meccanismo della trebbiatrice a cui veniva collegato con una lunga cinghia di trasmissione di un tessuto di corda, molto robusto. Ma, quando poteva, Peppino, con la scusa di provarlo, mi portava a fare un giro e lo faceva correre. Una volta andammo addirittura alla stazione di Ripabottoni – Sant’Elia per prelevare un pezzo di ricambio. Undici chilometri ad andare e undici a tornare.
Verso la metà del mese di giugno, i soci, Michelino, Giovanni, zio Pasquale, zio Leonardo con il figlio maggiore Peppino, e nonno, conosciuto da tutti come zì Carluccio, si davano appuntamento alle cinque del mattino.
Il Marshal andava cacciato a spinta dal garage di Pasquale.
La messa in moto doveva avvenire in strada perché c’era più spazio.
Il serbatoio veniva riempito con un paio di taniche da 20 litri, usando un imbuto di lamiera di stagno.
Poi iniziava la procedura vera e propria, durante la quale i soci parlavano solo se era davvero necessario, come si fa in chiesa.
Carluccio estraeva dalla tasca della tuta una cartina assorbente,  che aveva comprato apposta a Campobasso in confezioni da trenta e l’arrotolava come una sigaretta. La cartina era imbevuta di una sostanza pirica che la rendeva simile a una miccia.
Michelino intanto aveva svitato dal motore una chiave a T che terminava con un tubo destinato a ricevere la sigaretta.
Bisognava posizionare con cura la cartina all’estremità del tubo, accenderla, assicurarsi che avesse preso ad ardere e non si era spenta sul nascere, magari per il vento forte o perché inumidita, introdurla nel condotto che portava alla camera di scoppio e avvitare bene la chiave a T.
L’operazione successiva doveva avvenire in rapida sequenza, perché, altrimenti, finita la poca aria a disposizione, la cartina si sarebbe spenta. Infatti subito dopo aver avvitato la chiave nel motore era un muoversi rapido e convulso. Ci si doveva disporre due da una parte e uno dall’altra della massiccia manovella, che avrebbe azionato il volano. I soci già sapevano che l’operazione non si sarebbe conclusa al primo colpo, per cui non apparivano delusi che il primo tentativo produceva al massimo due o tre stu stu stu e una nuvoletta di fumo chiaro.
Si svitava la chiave a T, si toglieva la cartina usata, se ne arrotolava un’altra, si introduceva nel tubo, la si riaccendeva, si riavvitava la chiave e si faceva girare la manovella con uno sforzo sincronizzato da un energico: “Uno, due e tre…ooh”. In genere dopo il quarto tentativo senza risultato zio Pasquale sentenziava: “Coss è uocchie”.
Zio Pasquale credeva molto nel malocchio e lo tirava fuori in ogni circostanza.
La prima volta che, in quella occasione, formulò la sua ipotesi era ancora sorridente, come se stesse scherzando, infatti, gli altri non gli diedero retta, ma dopo il quinto tentativo infruttuoso zio Pasquale ripeté con assoluta convinzione e senza ridere:
” Se n’è maluocchie coss…”.
Così, mentre gli altri preparavano la sesta accensione, andò in casa per prendere quello che lui chiamava il pendolino, che gli serviva per accertare il malocchio.
Se il pendolino, cioè un pezzo di spago con un piccolo peso di metallo ad un’estremità, messo sul motore, si sarebbe messo a girare, allora era malocchio.
Naturalmente puntualmente il pendolino si metteva a girare:
“Facem’u benedice”, propose, rimettendo in tasca l’attrezzatura con la stessa cura che un maestro artigiano avrebbe usato con i ferri del mestiere.
Ma intanto si provava per la settima volta.
“Da chi u vu fa benedice, da Don Daniele?”, lo canzonava Michelino, che in un certo senso voleva dire:
“Tu vorresti andare da Don Daniele, gli vorresti dire che al trattore hanno fatto il malocchio e vorresti che quello subito ti servisse una bella benedizione, ma ti rendi conto?”, solo che Michelino non era così loquace
“U feceme benedice da Ze’ Filomè, i diengh i’ na galline”.
Ze’ Flomè incantava il malocchio. Era una vecchina buona come il pane e nell’aspetto e nei modi, non aveva nulla della fattucchiera. Normalmente, quando veniva chiamata, faceva tre croci col pollice sull’oggetto da liberare o sulla pancia della persona con la colica o sulla fronte del bambino epilettico, poi, molto presa dal ruolo, mormorava delle parole con le mani congiunte e infine si ritirava in silenzio.
Una volta, molti anni dopo, le chiesi: “Ze’ Flomè, ma tu che dici?”
E lei mi rispose in modo amorevole ma fermo:
“Solo cose di Dio, ma nun tu pozz dice, zie seie”.
Mi sono chiesto a lungo il perché del segreto. Che cosa poteva cambiare? Perchè ciò che si considera sacro conserva la sua sacralità e il suo potere solo se viene riservato a pochi iniziati, escludendo i profani?
Mio nonno era molto religioso e, anche se non aveva nulla contro la persona, non avrebbe potuto acconsentire alla pratica, considerata superstiziosa dalla religione.
Invece mio padre quando si trovava davanti alla convulsione di un bambino, dopo aver prescritto una supposta di Brolumin, se vedeva gli sguardi ansiosi e dubbiosi dei familiari, diceva: “Ho capito va bene, chiamate la collega”.
La “collega” era appunto Ze Flomè che con il suo intervento rassicurava gli astanti. Il modo di fare di mio padre non era canzonatorio, ma semplicemente rispettoso della “cultura” del luogo.
Fatto sta che zio Pasquale due o tre anni prima, siccome l’accensione del motore tardava, era andato a consultare zè Flomè.
Pare, ma non lo ammise mai, che concordò che lei sarebbe passata vicino al trattore facendo finta di niente e avrebbe pronunciato le sue giaculatorie.
Pare che al tentativo successivo il motore si accese, confermando così la sua convinzione.
Ma questa volta zio Pasquale non voleva insistere con zè Flomè. Gli altri erano contrari o per fede religiosa, come mio nonno, o per eccesso di concretezza che portava a negare tutto ciò che non si vede, come Michelino e Giovanni o per assoluta passione per la meccanica come zio Leonardo e Peppino.
Zì Carluccio ascoltava il parere di tutti, anche quando per principio non poteva essere d’accordo, mettendo in pratica la regola di Voltaire. Così aveva chiesto a zio Pasquale:
“Pasquà pecchè dice ch’è maluocchie, pur ù trettore mo ze fa u maluocchie?”
E zio Pasquale con una logica stringente aveva risposto:

“A nafta ce l’ì miss, a cartucce cel’ì piccete, a manuelle ce l’ì gerete, sette vote, u trettore nze picce, che pò esse? Sole maluocchie”.
Si erano fatte le sette e mezza e si procedeva all’ottavo tentativo, assistiti da cinque o sei spettatori in circolo tutti con le braccia conserte.
Questo tentativo si concluse con uno stu in più, ma il motore non si accese.
Pasquale si era ormai distolto dall’impegno, con disappunto degli altri soci, convinto com’era che erano entrate in gioco forze esoteriche.
Cercava, guardando intorno, una soluzione al problema, mentre considerava con sufficienza gli sforzi dei compagni.
Vide allora spuntare dalla parte del Colle delle croci, Trese, una donna di circa cinquanta anni, abbastanza alta, dai modi cortesi ma decisi, con due braccia robuste, come quelle di un uomo giovane, i capelli rossi e gli occhi verdi che la facevano assomigliare a un’irlandese. Pasquale sapeva che Trese in più occasioni aveva dimostrato di essere una “magara” ed era considerata da alcuni un’erede, da altri una concorrente di Ze’ Flomè .
Siccome questa figura era praticamente sconosciuta ai soci, almeno come maga, lui decise di avvicinarla sapendo di non destare sospetti e, prima che questa arrivasse nei pressi del trattore, le chiese se poteva fare qualcosa.
Così ze’ Trese, quando fu a dieci metri dal gommato, disse a voce alta:
“Sante Mertine!”,  una specie di generico augurio di riuscita, buono per tutte le imprese. Si usa quando chi arriva trova che si sta impastando il pane o si mettono a bollire le bottiglie di salsa di pomodoro.
I soci quasi automaticamente risposero come dovuto cioè:
“Bommenute”.
Ze Trese si avvicinò un altro poco poi chiese:
“Mo’, mettete n’ moto?”.
Mio nonno si incaricò di rispondere per tutti con buona educazione e pazienza:
“Se Die vo’”.
E Trese:
“Eh! vo’, vo’, mah, Die u benedich”.
Detto ciò la donna se ne andò con un inavvertibile cenno di intesa con Pasquale, che decise a quel punto di partecipare al nono tentativo.
Prima di cominciare tutto il rito per la nona volta zì Carluccio, che era anche presidente dell’Azione Cattolica disse:
“I dico ‘na gloria patri a San Giovanni Bosco”.
Zio Leonardo invece chiese di poter accendere lui la cartuccia. Mise molta cura nell’arrotolarla, si pose al riparo dal vento per accenderla nell’incavo della ruota grande del gommato, la posizionò lentamente nel condotto che potava alla camera di scoppio, avvitò con cura, ma abbastanza rapidamente la chiave, si sputò nelle mani e comandò il giro di manovella. Il volano girò velocemente e, agli stu stu stu iniziali, si unirono anche tre o quattro tump tump tump tump in rapidissima successione e poi tratratra.
I soci guardarono la ciminiera del motore con lo sguardo ansioso e speranzoso, come quello dei fedeli rivolti verso il comignolo della Cappella Sistina in attesa della decisione del conclave. Per un attimo tutto tacque e sembrò fallito anche il nono tentativo, ma subito dopo, con una abbondante emissione di fumo nero e con un botto che assomigliava a un’esplosione, il gommato si accese. Un applauso partì dagli spettatori. I soci trattenevano a stento un sorriso di compiacimento. Peppino salì sul trattore e abbassò l’acceleratore, poi non seppe trattenersi dal farlo partire e percorse trionfante tutta via Cristoforo Colombo.
A quel punto, però, tutti rimasero della loro convinzione.
Nonno Carlo attribuì il merito della riuscita del nono tentativo alla preghiera a San Giovanni Bosco, ch’era il Santo protettore della nostra casa, zio Leonardo, tra l’ilarità degli spettatori, cominciò a saltare dalla gioia e a gettare la coppola a terra come liberato da una forte tensione, convinto che il merito era suo per come aveva acceso la cartina e comandato la manovella, Michelino e Giovanni, agnostici, che non avevano attribuito alla breve visita di Trese nessun significato, dissero rivolti a Pasquale:
“I’ vist, quale maluocchie”.
Zio Pasquale, che si aggirava compiaciuto, con le mani in tasca, intorno al trattore finalmente acceso, li guardò compassionevolmente, scuotendo il capo e, con un sorriso superiore che nessuno colse, mormorò:
“Mah! Che ne volete capire voi. Che ne capite voi dei misteri della vita!”.

Come dovrebbe essere

di Lucia Rosas

by Matteo Arfanotti

Sto passando giorni, per non dire mesi in posta con una persona, iniziamo sempre con una frase, ultimamente con le canzoni, stiamo lavorando ad un puzzle chiamato vita.
Le nostre stanno diventando sincroniche per quanto manteniamo le distanze, città, pensieri, idee politiche, calcio. Non riusciamo a litigare ma a colpi di lama arriviamo a dire quasi tutto.
Ecco quel quasi tutto sta diventando un problema.
Sentire una vita propria a te parallela e della quale non avresti saputo nulla ti lascia sgomenta e ti fa sognare quei possibili futuri di tanti romanzi fantastici.

COINCIDENZA. Dannazione se non riguarda il treno mi mette ansia, non che odi viaggiare anzi, ma quando è fatta da gesti, parole, occasioni, quando diventa sincronica devi pensare e non sempre fa bene.
Per questo quando in bacheca FB mi arriva un tag con la domanda meglio toccare che taggare, meglio amici che @mici io non ho più la certezza di un anno fa.
La maggior parte di noi alla domanda del perché ci si è iscritti risponde mi ha invitato un amico, alcuni per curiosità, quindi si parte da un concreto per lanciarsi verso l’ignoto, il fantomatico web.
Qui parte la cospirazione, cerchi gruppi con i tuoi interessi, posti brani, ti suggeriscono amicizie o leggi una persona su una bacheca e scatta quel desiderio di chiedere l’amicizia.
Con alcune di queste persone si crea un feeling così forte, una specie di ubriacatura che è pari ad una cotta. il desiderio impellente di sapere se è collegata, se passa in chat o lasciare in posta qualcosa che dimostri come sia importante.
Leggendo certa cronaca ti prende il panico: chi c’è davvero oltre lo schermo? sarà chi dice, sarà onesto/a, sarà la foto, e quello che vorrei vedesse CON me, stalking tramite mail: esiste anche questo reato. sigh. io lo sto rischiando. confesso.
Il mio rapporto con fb doveva essere una vetrina per evadere da casa qualche ora non potendo, talvolta camminare.
Gli accordi in casa erano niente dati personali, niente foto precise, niente numero di telefono, niente appuntamenti; siamo adulti ma non dobbiamo essere sconsiderati.
poi si cambia, lentamente, e quando ti prende il famoso raptus del “se potessi ti farei uscire dallo schermo” è finita, bruci di questa voglia e cerchi una soluzione e cambi, giustifichi le regole che infrangi.
Vorrei taggare diventa uno sfiorare, un po come quando non hai il coraggio di uscire mano nella mano, @mici e non sempre indica i gatti e inventi una crittografia dentro un pubblico scritto, una musica segreta che rende forte quel legame.
quindi si passa da accettare un contatto a un condividi a un scrivi a una cartolina a un telefona. succede, non con tutti ma ti fa pensare a cosa stai cercando, a quanto puoi libera da pregiudizi fidarti e decidere vediamoci.
a volte. ci sono persone con le quali non percorri tutto questo iter, che ti danno una sensazione positiva, che le immagini a volte anche nel tono della voce, nella movenza fino a quella battuta che ti condanna: quando beviamo un caffè insieme.
è finita, la curiosità ha deciso per te, il virtuale viene sconfitto.
se racconti a qualcuno cosa hai in mente con terrore ti dice pensaci, come già detto la cronaca non aiuta a fidarsi.
per una serie di motivi alcune di queste persone le ho incontrate una volta e la foga mi ha portato a parlare a raffica, a ubriacarmi di immagini.
quando è arrivato il tag con la domanda è stato un tuffo al cuore, avevo avuto una specie di appuntamento al buio di FB, un mio contatto di posta passava da qua e quindi potevamo varcare il monitor.
alla richiesta ho accettato sorpresa, non è una di quelle persone che per un certo affetto desidero assolutamente incontrare ma, il piacere di parlarsi in certi momenti in cui una spalla valeva una medicina rendeva gradita la richiesta.
Vi dirò solo che quell’ora è stata breve, la compagnia ancora più piacevole e vedere confermato quanto l’istinto mi aveva suggerito (fidati, è una brava persona, è onesto) mi ha quasi spaventato, davvero sono oltre il monitor quando sto bene con alcune persone.
Sono mesi che dico facciamo un raduno enakapata e poi tiro il pacco per motivi ben noti ma, vincenzo panico: se con lui è stato così, con voi come sarà? a parte dedè salvata in corner dai minuti e da piccola iena che mi è stato in braccio tutto il tempo?
Ripenso ancora ad una amica fb, sei mesi fissi di scrittura, sms, matta come una cotta finchè l’ho vista e mi sono tranquillizzata, non era un troll e la porto sempre nel cuore.

Avevo intenzione di scrivere un racconto un po diverso, una cosa seria. un’assonanza con un romanzo scritto davvero che non ho mai letto ma che ho messo in pratica, volevo usare due citazioni colte ma sono già in bacheca, volevo farti aggiungere un brano musicale con un bel suono e il titolo che avrei dato alla storia, volevo fare la stesura a penna come un tempo e ho fatto il contrario.
Domanda: ma quando si sogna non siamo virtuali? e quindi quando siamo qua non sogniamo a occhi aperti trascinando con noi chi vorremmo?
rido davanti allo schermo, quella sera che ti ho incrociato sulla bacheca dell’uomo che mi ha sconvolto la vita (se ho conosciuto certe persone, parlato e imparato un po di pc è tutta colpa sua) e ho accettato il contatto. si allora ti avrei detto certissima meglio taggare e @mici. oggi: sospiro!

Abbassarsi

La ragione per cui i grandi fiumi e il mare
possono regnare sulle cento valli
è che sanno collocarsi al di sotto di esse.
Perciò possono regnare sulle cento valli.
Per questo se  vuoi innalzarti
al di sopra della gente,
devi nelle tue parole collocarti sotto di loro,
se vuoi guidare la gente,
devi nella tua persona collocarti dietro di loro.
Per questo il saggio sta sopra,
ma la gente non ne sente il peso,
sta davanti, ma la gente non ne è gelosa.
Il mondo si compiace
e lo loda e non si stanca di lui.
Siccome non compete,
nel mondo nessuno può competere con lui.

Il giovane Cristopher e il vecchio Cnemone

di Mariagiovanna Ferrante

Sono un’insegnante. Di Latino e Greco. Ecco qua: la vedo, la faccina Messenger che è comparsa sulle vostre teste con tanto di “mamma mia” di accompagnamento.
Però vi assicuro che non sono (ancora) vecchia, non peso cento chili e non ho i baffi.
Appartengo alla generazione masochista dei docenti precari che continuano ad amare ciò che fanno, nonostante la Gelmini e nonostante la stanchezza. Già, perché siamo stanchi. Stanchi di essere l’ultima ruota del carro, stanchi di dover sperare ogni anno di poter lavorare, stanchi di tornare disoccupati alla fine di ogni anno scolastico.
Un altro lavoro? Non mi sono mai vista in modo diverso. Cosa mi permette di andare avanti? Non certo lo stipendio!
Capita che molte volte mi interroghi sul senso dell’insegnamento di discipline come le lingue classiche, ossimoriche nell’era del Santo Web, e di Maria De Filippi, in cui i gioiosi fanciulli occupanti i banchi preferirebbero trovarsi di fronte il buon Peppe Vessicchio (con tutto il rispetto per il conterraneo) o quel bonazzo di Kledi per essere valutati in canto e danza, piuttosto che in un’esposizione su Omero o Callimaco.
Eppure … eppure capita di essere sorpresi.
Quest’anno mi è stata affidata quella che il Dirigente Scolastico ha definito una “classe difficile”: troppo vivaci, troppo rumorosi, sempre a rischio sospensione.
Io, che sono stata anche in un istituto professionale in quel di Frattamaggiore, non mi sono scomposta più di tanto, pur vedendomi costretta a indossare la maschera della prof. severa.
E in effetti sono ragazzi vivaci, ma lo sono anche intellettualmente.
Tutti, anche lui.
Il classico belloccio-ricco-figlio di papà, che ama farsi guardare e che anima la monotona vita scolastica con battute di ogni tipo (non ultima l’osservazione sul deficit visivo di Leopardi, dovuto, a suo avviso, a un eccesso di onanismo).
Il primo compito di greco è stato un disastro (“prof., nutro avversione per la versione”, mi ha detto, consapevole di giocare con gli artifici delle figure retoriche), così come la prima interrogazione.
Io so che E. non è affatto uno stupido, come vorrebbe far credere. Ma lui preferisce fare l’animatore nei villaggi turistici, esibirsi come “buffone di corte”, avere gli occhi puntati su di sé.
E allora lo sfido, sul suo stesso terreno.
“Facciamo una cosa, E. – gli dico una mattina-, la prossima volta che ci vediamo, tu vieni al posto mio e tieni una lezione su Menandro e gli autori di età ellenistica. La gestirai come meglio ti sembrerà.
E. sgrana i suoi occhioni da furbo adolescente e accetta (“a disposizione, prof.”), ma non mi chiede il perché.
Passa una settimana, durante la quale più di una volta tempo che il pargolo non si presenti all’appuntamento.
Appena entro in classe, E. è presente, pronto a tenere banco. I compagni di classe sono pronti ad assistere all’ennesimo show dell’animatore, ma io so che mi posso aspettare qualcosa di buono.
E qualcosa di buono avviene.
E., stranamente serio, mi presenta il percorso che ha deciso di seguire per studiare la Commedia Nuova: la ricerca della felicità.
E inizia ad argomentare in merito alla tematica della mancanza di felicità nell’uomo e della spasmodica ricerca di essa, riflettendo sull’evoluzione dei personaggi del teatro di Menandro e collegandosi con il percorso interiore del protagonista del film di Sean Penn, Into the wild. Lo ricorda nei minimi dettagli, e con padronanza riflette sulle differenze tra il giovane Cristopher (il protagonista del film) e il vecchio Cnemone, intorno al quale ruota la trama del Misantropo dell’autore greco. Per sottolineare, attraverso la citazione di una frase del film, che entrambi giungono a una conclusione simile: “La felicità è reale solo quando condivisa”.
Continua parlando di intrecci e di agnizioni, non trascurando l’apporto della commedia d’intreccio alle nostre soap opera, né i paragoni con il panorama musicale attuale.
Che dire?
Sorrido, e chiedo a E. se ha compreso il motivo della mia richiesta di una sua performance.
“Mah, veramente vorrei che me lo dicesse Lei”.
“Beh, E., volevo dimostrare a me, ma soprattutto a te, che non sei il cretino che ti piace sembrare. E sono convinta che ti sei anche divertito, nell’impostare la lezione così come è venuta fuori”.
“Vero, prof. Mi è piaciuto studiare così. Quasi quasi…mi metto a studiare sul serio.”
So che ci vorrà un bel po’, prima di vedere mantenute le promesse di un liceale che sembra uscito da una mini-serie per la tv. Ma mettere in luce le sue potenzialità è un risultato che incoraggia ad andare avanti nel proprio percorso. Nonostante tutto.

Uno, doje, tre e quattro e Concetta Tigano

Mi sento un po’ sola …
Ieri sera ho finito di leggere “Uno doje tre e quattro”, è stato bello sentirsi parte di questa allegra compagnia, siete riusciti a creare un’atmosfera coinvolgente, sembra davvero di stare seduti a chiacchierare insieme.
Mi è piaciuto tanto, l’impostazione degli interventi personali è una bella trovata.
In tante cose mi sono ritrovata, ma la cosa che traspare di più è il rispetto reciproco delle diverse opinioni, è questo forse il messaggio più forte e più bello, confrontarsi, conoscersi e accettarsi.
E aggiungo ancora che il capitolo sulla nostalgia è stato commovente, siete stati coraggiosi nel raccontare cose così … direi intime, riuscendo a commuovere anche chi legge.
Ho digerito anch’io con difficoltà l’intervento di Daniele sulla Lega, e vorrei dire che le amministrazioni su al Nord forse funzionano “a prescindere” dalla lega.
Ma il top sta nel capitolo dedicato alla conoscenza ed accettazione dell’altro, questo è stato, secondo me, il motore che ha fatto partire questa avventura.
Geniale Vincenzo che l’ha intuito, bravi tutti voi che l’avete realizzato!!!!

Piazza QuRiosa

E’ stato trovato questo oggetto QuRioso in Piazza Enakapata. Indovina cos’è.


Scatta l’immagine del codice QR con il tuo cellulare (*)
Accedi ad internet
Guarda la foto
Aguzza la vista ed indovina l’oggetto QuRioso
Se non hai un lettore di codici QR installato sul tuo cellulare digita direttamente dal browser del tuo telefono www.i-nigma.mobi e scarica l’applicazione.

Uno, doje, tre e quattro e Giacomo Tranchese

Ciao Viviana,
Ho appena finito di leggere ”Uno doje tre e quattro” e, per prima cosa, ti devo confessare che erano decenni che non aprivo un libro per leggerlo.
L’ho aperto immaginando di dover leggere un una storia inventata, un giallo o chi sa che cosa, ma dopo un momento di sbandamento, mi sono incuriosito ed appassionato per leggere e per capire come uno stesso argomento veniva trattato da persone diverse, quattro amici, con un linguaggio ed una forma per me comprensibile.
Ritengo che se per voi l’obiettivo, oltre a quello di far conoscere come si possa scrivere un libro in gruppo, era anche quello di far arrivare al lettore le vostre idee, i vostri sentimenti, un vostro modo di analizzare i problemi e di indicare anche una vostra soluzione, con me ci siete riusciti. E’ stato un piacere conoscervi ed è stato per me un motivo di riflessione e di arricchimento.
Grazie.

Uno, doje, tre e quattro e Maria Cristina Famiglietti

Parlare di un libro è una delle cose che più amo fare, seconda solo al piacere divino di immergermi nella lettura, ogni volta col brivido e l’emozione che l’inizio di una nuova avventura mi regala. Leggo, scrivo e parlo per lavoro. Ma ciò che mi spinge a farlo è la passione, il mio primo ed unico motore! Questo libro non mi capita per caso tra le mani, mentre mi aggiro-cacciatrice- tra gli scaffali di una libreria; questo libro mi viene prima raccontato e poi consegnato, da due persone speciali: Adriano Parracciani e Vincenzo Moretti. Ho conosciuto entrambi tramite internet, all’interno di un contenitore sociale potentissimo, qual è Facebook. Prima Adriano, poi Vincenzo mi hanno incuriosita sul ‘fenomeno’ Enakapata, che oramai tutti conoscete, e che per spora magistrale porta al simpaticissimo. Uno, doje, tre e quattro, un non formale ammasso di pagine, ma una delle trovate più efficaci per togliere un po’ di polvere dall’idea classica di romanzo (che pure mai si può prescindere, ma anzi modificare in milioni di modi diversi). Gli autori di questo libro sono quattro, due uomini e due donne che hanno condiviso pensieri, ricordi, emozioni attraverso un blog prima, ed un libro dopo. Il titolo, parlante lingua partenopea, parla di loro, dei nostri quattro moschettieri del web, eroi del quotidiano affabilatori per caso e per passione. Nessuna storia fantastica, nessuno stravolgimento poetico. Solo racconti di vita, veri frammenti di una virtualità multimediale che può, e vuole, farsi portatrice di valori: l’amicizia, la famiglia, le radici, il piacere di stare insieme ma soprattutto l’esigenza di condividere. In mo mondo troppo veloce, che scorre ai ritmi parossistici di musiche non sempre intonate, i nostri quattro autori ci regalano una visione diversa delle realtà virtuali, spiegandoci come anche dagli schermi luminosi di un pc, possano nascere e vincere scommesse creative di notevole prestigio, non fosse altro per l’impegno che è stato messo per realizzare questo progetto e per la grande costanza, passione con la quale questo libro vuole farsi strada in un panorama composito e inflazionatissimo come quello editoriale contemporaneo. Passione, una parola con la quale ho iniziato e con la quale voglio concludere queste mie righe. Non è possibile prescindere l’atto creativo da questo sentimento. Non saremmo nulla, senza una spinta interiore che ci porta fuori dalle nostre vite chiuse, aprendo le porte su un mondo pieno di persone che sono pronte ad ascoltare la nostra voce.
Buona lettura!

Uno, doje, tre e quattro e Cinzia Massa

Ho letto il libro, l’ho assaporato nelle sue innumerevoli sfaccettature, ne ho seguito i racconti e di volta in volta mi sono sentita Carmela, Daniele, Viviana, Vincenzo.
Sì perché attraverso la lettura di Uno, doje, tre e quattro, ti senti catapultata in un salotto , comodamente seduta tra 4 amici. E li ascolti, e rifletti, mentre i discorsi ti conducono su temi diversi. Come l’amicizia, quella reale e quella virtuale, quella in cui ci si vede e ci si tocca, e quella che attraverso il taggarsi ti regala emozioni, conoscenza, ti solleva e ti consola. Come i ricordi, quelli che ci segnano, quelli che non si staccano, quelli dolorosi ma anche ricchi di gioia, cibo, profumi e gite in compagnia. E mentre ci si perde tra i giochi con le parole, la lettura ti conduce alla regole, all’ordine e al disordine delle nostre città, della nostra Italia. Si parla di nord e sud e ti accorgi che il cambiar una vocale al passo manzoniano “quel ramo del lago di Como” diviene “quel ramo del lago di Cuma” l’unica differenza resta il pensarsi diversi e lasciare che così vadano le cose. Si poteva non parlare di lavoro? No. Ecco il lavoro con la L maiuscola, quello di uomini che fanno “le cose per bene perché è così che si fa”, e si parla di merito e di talento, della ricerca che in Italia non c’è e dei giovani che vanno via. E poi ancora sono le radici a farci sentire parte di un pezzo della vita degli autori, quelle radici che ci ancorano alla terra, alla famiglia, agli amori e alla storia.
E mentre le parole scorrono, ti senti scardinare i pensieri, fuoriescono suggestioni, pulsioni e, perché non dirlo, a volte anche una lacrima, di commozione, di riso, perché Uno, doje, tre e quattro è l’anima di ciascuno di noi, che ride e piange, scalpita, si arrabbia e poi si placa, in una parola vive.

E io ringrazio il gatto

Opera di Matteo Arfanotti

Opera di Matteo Arfanotti

Antonio, Gaetano e Nunzia se lo ricorderanno certamente, credo anche nostra madre, ogni qualvolta si discuteva di chi comandava a casa nostra, andava a finire sempre con papà che ci ricordava che quando ci stava lui comandava lui, su tutto e su tutti, e sul punto non era prevista discussione, in sua assenza comandava mamma, poi il comando passava a me, il più grande dei figli, poi ad Antonio, poi a Gaetano e poi a Nunzia, che diventata ben presto tignosa, domandava immancabilmente “scusa pà, ma io su chi comando?” al che papà, che non poteva venir meno alla catena dinastica del comando e non voleva far dispiacere a Nunziatina sua, rispondeva immancabilmente “tu comandi al gatto”, Janis, che l’avevo portato io da Salerno e con il mio amico Umberto avevavamo pensato di chiamarlo così in omaggio a Janis Joplin pensando che fosse femmina e invece era maschio, ma lasciamo stare che quello non è stato l’unico incidente in cui è incappato il povero micio.

Ieri sera, quando ho visto tutti questi splendidi ringraziamenti post presentazione napoletana, mi sono chiesto “e mò?, sono arrivato ultimo, e adesso io a chi ringrazio, a tutti quelli che hanno ringraziato a me?” ed ecco che mi è tornata in mente la storia del gatto, per fortuna non ho bisogno di ricordare, ormai per me non è più possibile, le lampadinelle quando vogliono si accendono da sole, e allora mi sono detto “ma sì, io ringrazio il gatto”.

Il gatto dalle mille facce e dai mille pensieri, una specie di gatto con gli stivali però con tanti nomi, tanti caratteri, soprattutto tanta voglia di contribuire a un’avventura che avrà tanto più senso quanto più la vivremo assieme, un’avventura che sono convinto riserverà a ciascuno di noi delle belle sorprese. Una mi è capitata stamattina, ma questo ve lo racconto un’altra volta. Per adesso volevo solamente ringraziare il gatto,  e adesso che l’ho fatto posso tornare a lavorare che almeno fino alla fine della settimana prossima sto messo in croce. Comunque è una croce che mi sono scelto, dunque niente lamenti. Com’è la canzone dei sette nani? Andiam, andiam, andiamo a lavorar? Appunto.